Alcuni lo definiscono un “trend secolare”; altri un “problema sistemico”; altri ancora un “rischio finanziario materiale”. Comunque lo si chiami, il cambiamento climatico è per gli investitori un elemento che non può più essere ignorato nelle strategie di costruzione del portafoglio. Il tema è anche in cima alle priorità del Piano di Azione della Commissione europea per uno sviluppo sostenibile, che propone, tra l’altro, un’armonizzazione delle metodologie di costruzione degli indici low carbon e un’integrazione dei temi di responsabilità sociale nella consulenza finanziaria e nei doveri fiduciari degli operatori istituzionali.
I rischi climatici
Le aziende affrontano oggi diversi tipi di rischi climatici. Tra i più importanti ci sono quelli fisici, derivanti da eventi naturali estremi, come gli uragani, le alluvioni o gli incendi su vasta scala. Ma sono altrettanti critici quelli di transizione verso un’economia a basse emissioni inquinanti, che derivano dalla necessità di rispettare l’Accordo di Parigi per contenere l’aumento delle temperature. Ne sono un esempio le regolamentazioni sempre più stringenti sull’inquinamento, la necessità di implementare cambiamenti tecnologici, il mutare delle preferenze dei consumatori. La Task force del Financial Stability Board sulla trasparenza finanziaria su questi temi (Task Force on Climate-Related Financial Disclosures, TCFD) ha creato un quadro di riferimento di tali rischi distinguendo in acuti e cronici quelli fisici, e legali/politici, reputazionali e tecnologici quelli da “transizione”.
Gli investitori fanno sempre più pressione sulle imprese perché rendano pubblici i rischi climatici e, allo stesso tempo, gli asset manager hanno un crescente bisogno di misurare tali pericoli all’interno dei loro portafogli e renderne conto ai clienti. I firmatari del Montreal Carbon Pledge, promosso dal Principle for responsible investiment delle Nazioni Unite nel 2014, hanno ormai superato le 120 unità tra asset owner e gestori per un patrimonio che supera i 10 mila miliardi di dollari e si sono impegnati nel calcolare e comunicare l’impronta di carbonio (carbon footprint) dei loro portafogli azionari ogni anno.
Rischio climatico e investimenti
“Comprendere il rischio derivante dalla transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio può aiutare gli investitori a prendere decisioni migliori”, si legge in un recente studio Morningstar dal titolo “Preparing for a Low Carbon Economy: Investing in the Era of Climate Change”. “Tipicamente è un dato che non si conosce. Se l’esposizione a fonti fossili è una delle maggiori componenti, si stima che le aziende che rappresentano circa la metà della capitalizzazione mondiale abbiano un carbon risk che deriva da altri trend come il passaggio verso le energie rinnovabili e le auto elettriche. Una valutazione più completa del portafoglio può quindi dare un quadro più preciso di tali rischi e di dove si annidano”.
Oltre il carbon footprint
Il concetto di carbon risk, dunque, va oltre quello di carbon footprint, che si limita a fotografare le emissioni correnti e, pur con i suoi limiti (si basa sulle informazioni date dalle società e che quindi possono essere inaccurate) può rappresentare un punto di partenza, che necessita di essere integrato con dati sul rischio finanziario materiale derivante dal cambiamento climatico e dalle strategie messe in campo dalle imprese per mitigarlo. Per questo sono state sviluppate metriche più articolate. Sustainalytics, società specializzata nella ricerca ESG che è partecipata da Morningstar al 40%, ad esempio, calcola il Carbon risk rating per le aziende utilizzando due fattori: l’esposizione e la gestione di tale rischio. Questo giudizio rappresenta “il rischio non gestito che rimane una volta tenuto conto degli sforzi dell’azienda per ridurlo”. In pratica, può essere un fattore che non è sotto il controllo dell’azienda o che potenzialmente potrà essere abbassato in futuro.
Il Carbon risk rating varia da industria ad industria, ma anche all’interno dello stesso settore, come si più vedere nel grafico qui sotto. L’industria petrolifera, ad esempio, è tra quelle che ha mediamente più alti livelli di rischio (la barra verde è spostata più a destra), ma alcune aziende si collocano ben al di sopra della media; altre decisamente al di sotto. La grande differenza è nella misura in cui le imprese gestiscono o meno tali problematiche.
Low carbon e qualità finanziaria
Gli indici Morningstar Low carbon risk, introdotti recentemente, che offrono un’esposizione diversificata alle aziende più attive nella mitigazione dei rischi derivanti dal cambiamento climatico e più pronte alla transizione verso un’economia più pulita (sono basati sui dati di Sustainalytics su oltre 4 mila imprese), mostrano caratteristiche migliori in termini di qualità delle posizioni in portafoglio. Ad esempio, se confrontiamo il benchmark equity del mercato globale con il “cugino” low carbon vediamo che i titoli presenti nel secondo hanno un più alto vantaggio competitivo (Economic moat), una maggiore solidità finanziaria e sono più liquide. Tutte questi fattori, si legge nello studio Morningstar, permettono alle società di affrontare meglio i periodi di crisi. “Sono realtà con una strategia di lungo termine, con un maggior focus sulla creazione di rapporti di fiducia solidi, duraturi e reciprocamente soddisfacenti con gli azionisti, piuttosto che battere le stime di utili ogni trimestre”.
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