Malgrado le guerre tariffarie con l’estero e i rapporti non idilliaci che a Washington si profilano tra esecutivo e Congresso, l’economia Usa appare sempre più forte, con disoccupazione bassa, inflazione moderata e profitti in ascesa. Negli ultimi due anni, la crescita del Pil è passata dall’1,9% del quarto trimestre del 2016 al 2,6% del quarto trimestre 2018 (+3,4% il trimestre precedente). I prossimi due o tre anni dovrebbero vedere un contesto di crescita che se confermato renderebbe il ciclo di espansione iniziato nel 2009 il più lungo di sempre. In un tale ambito, Wall Street non si è fatta pregare per partecipare alla festa, con il Morningstar US Market TR Index balzato del 14,3% nell’ultimo anno e del 16,2% negli ultimi tre mesi (dati in euro al 20 marzo 2019).
Evoluzione dell’indice Morningstar US Market TR a un anno
Dati in euro al 20 marzo 2019. Fonte: Morningstar Direct.
A trainare l’economia sono stati consumi, investimenti e aumento della spesa pubblica. Un grosso aiuto l’ha fornito anche la politica monetaria, con oltre sette anni di tassi ai minimi storici e di Quantitative easing. Dato che la Federal Reserve ha sostanzialmente raggiunto gli obiettivi di piena occupazione e stabilità dei prezzi, non ha sorpreso che durante la riunione di mercoledì scorso il FOMC (Federal Open Market Committee) abbia deciso di confermare l’approccio prudente visto negli ultimi mesi e di lasciare invariati i tassi d’interesse sui Fed Fund nel range tra il 2,25% e il 2,5%. Inoltre, i membri del board hanno segnalato di non prevedere nuovi rialzi dei tassi nel corso del 2019, diversamente dalle proiezioni prevalenti nel corso del meeting di dicembre, che vedevano due rialzi tassi per quest’anno.
“Per ora, mantenere i tassi a breve sugli attuali livelli neutrali rappresenta a nostro parere un’ancora forte per la curva dei rendimenti americani e rafforza i tassi a lungo termine”, commenta in una nota Franck Dixmier, responsabile obbligazionario globale di Allianz Global Investors. “Ma nel medio periodo l’istituto terrà aperte tutte le opzioni continuando a monitorare i dati economici. La crescita resta solida e al di sopra del potenziale, anche se le ultime statistiche sono di difficile interpretazione a causa del parziale blocco delle attività amministrative”.
Fonte: U.S. Department of Labor
Tutte rose e fiori, dunque? Non proprio. A pesare come non poco sul futuro degli Stati Uniti c’è un debito pubblico che a fine 2018 ha toccato i 22 mila miliardi di dollari, un livello mai raggiunto prima. Ovviamente, sarebbe sbagliato dare tutta la colpa all’attuale amministrazione. Prima che Barack Obama entrasse alla Casa Bianca, il debito era di 10,6 mila miliardi di dollari, otto anni più tardi, al termine della sua amministrazione, aveva superato la soglia dei 19 mila miliardi. Tuttavia, alcuni provvedimenti adottati dall’esecutivo targato Donald Trump, come l’aumento della spesa pubblica (programmi militari inclusi) e la riforma fiscale, hanno accelerato questa deriva: tra ottobre 2017 e settembre 2018, il deficit di bilancio ha toccato i 779 miliardi, con la differenza tra entrate e uscite cresciuta del 17% rispetto all’anno prima e la più alta dal 2012.
L’offerta italiana
Gli investitori italiani possono scegliere tra 61 Exchange traded fund registrati alla vendita nel nostro paese dedicati ai titoli azionari large cap blend statunitensi (il che non vuol dire che siano tutti quotati su Piazza Affari). Di seguito, i 17 coperti dalla ricerca qualitativa di Morningstar.
Storicamente, i grandi indici dedicati al mercato azionario statunitense (in particolare l’MSCI USA e lo S&P 500) si sono rivelati decisamente complicati da battere per i gestori di fondi attivi. Molti attribuiscono queste difficoltà all’altissimo livello di efficienza del mercato azionario americano. Con il termine “efficienza” in questo caso si indica la velocità e la precisione con cui i partecipanti al mercato incorporano nuove informazioni (notizie economiche, dati contabili, ecc.) nei prezzi delle azioni. Inoltre, dati i progressi tecnologici e la crescita della porzione di attività gestite da investitori qualificati, il mercato è diventato sempre più efficiente e liquido nel tempo. Tuttavia, questo aspetto non può spiegare da solo il successo a lungo termine dei fondi indicizzati, almeno di quelli ampiamente diversificati e ponderati per la capitalizzazione di mercato.
Un altro vantaggio non da poco dei replicanti, infatti, è rappresentato dai costi. Per le case d’investimento, i fondi passivi sono intrinsecamente meno costosi rispetto a quelli attivi: i fornitori di index funds non devono pagare un team di gestori e analisti altamente qualificati, oltre ad avere un turnover di portafoglio decisamente inferiore, il che evita tutta una serie di costi accessori (commissioni varie, spread bid-ask).
Detto questo, gli indici ponderati in base alla capitalizzazione di mercato (come l’MSCI USA o lo S&P 500) presentano alcuni inconvenienti degni di nota. Possedendo “il mercato”, gli investitori si affidano ad altri partecipanti per valutare i titoli azionari. Se si considerano lunghi periodi di tempo, questi partecipanti hanno tutto sommato svolto un buon lavoro di valutazione, ma questi lunghi orizzonti sono stati anche contrassegnati da episodi di panico. I benchmark tradizionali sono infatti soggetti a bolle, in quanto naturalmente sovrappesano le azioni che sono aumentate nel loro valore e sottopesano quelle che invece hanno perso terreno. Ad esempio, durante il boom dei titoli dotcom alla fine degli anni ‘90, l'indice MSCI USA era in gran parte esposto a titoli tecnologici, dei media e delle telecomunicazioni, che alla fine crollarono. Quando scoppiò la bolla, il benchmark scese di oltre il 40% e ci sono voluti quattro anni per tornare al valore antecedente al crash.
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