Dall’inizio dell’anno, l’euro ha perso circa il 2% in valore nominale rispetto al dollaro, come conseguenza di un tasso di crescita inferiore a quanto previsto in passato e dell’aggiustamento delle aspettative del mercato sulla politica monetaria. La Banca centrale europea (Bce), infatti, ha cambiato i toni nella riunione di marzo, assicurando il proseguimento di una strategia accomodante. Secondo le stime contenute nell’Economic forecast di primavera della Commissione Ue, il tasso di cambio dovrebbe deprezzarsi circa dell’1,5% nell’intero anno.
Per un investitore europeo che desideri o abbia in portafoglio fondi con titoli azionari o obbligazionari in dollari (o altre valute estere), le implicazioni sono importanti. Quando compriamo uno strumento finanziario in una divisa diversa dall’euro dobbiamo innanzitutto convertire il nostro denaro nella valuta straniera, quindi ci esponiamo al rischio di oscillazioni del valore di quest’ultima, che si aggiunge a quello dell’asset class prescelta.
Facciamo un esempio. Se acquistiamo un Etf (Exchange traded fund) sull’indice statunitense S&P500, dovremo prestare attenzione non solo all’andamento di Wall Street, ma anche alle variazioni del dollaro rispetto all’euro. “La relazione tra i tassi di cambio e i ritorni del mercato locale giocano un ruolo importante nel comportamento degli strumenti finanziari esteri”, spiega Daniel Sotiroff, analista sulle strategie passive di Morningstar. “Nella maggior parte dei casi, i movimenti sulle valute e i rendimenti sono correlati positivamente, di conseguenza il rischio di cambio si aggiunge alla volatilità del paniere di riferimento. La situazione opposta, invece, è più rara”.
Coprire il rischio di cambio
Se l’investitore non vuole assumere il rischio di cambio, può scegliere, dove disponibile, la classe del fondo o dell’Etf che lo copre, anche detta hedged. Questi strumenti, in genere, utilizzano contratti forward (a termine) per raggiungere tale obiettivo. In pratica, definiscono con un intermediario un determinato tasso di cambio futuro. Per la sua determinazione, vengono presi in considerazione tre fattori: i tassi di interesse sul mercato domestico, quelli sul mercato estero e l’attuale tasso di cambio tra le due divise.
La copertura ha un costo che deriva dalle differenze tra i tassi di interesse delle due economie di riferimento, ad esempio quella europea e statunitense. Quando i saggi sono più alti sul mercato estero, il “rendimento dell’hedging” è negativo e diventa quindi un onere per l’investitore. E’ proprio questa la situazione in cui ci troviamo oggi sulle due sponde dell’Oceano. Negli Stati Uniti, i tassi sono compresi tra il 2,25 e il 2,5%, a seguito di una serie di rialzi cominciati nel 2016. Nell’area euro, invece, sono fermi tra lo 0% per le operazioni di rifinanziamento principale, lo 0,25% per quelle di rifinanziamento marginale e il -0,40% per i depositi. Nell’ultima riunione di marzo, la Banca centrale europea ha annunciato che rimarranno tali per tutto il 2019, allontanando le possibilità di un aumento entro l’estate.
Quanto costa
Oggi, dunque, coprire il rischio di cambio ha un costo piuttosto salato per gli investitori europei. Il grafico qui sotto rappresenta il rapporto tra il T-Bill 1 mese e l’Euribor 1 mese, utilizzati come riferimento per i tassi a breve termine rispettivamente negli Stati Uniti e nell’area euro. L’orizzonte considerato è quello degli ultimi dieci anni utilizzando le variazioni a un anno rolling. In pratica, le barre in verde indicano il maggior rendimento del Treasury americano rispetto all’Euribor.
Differenziale di rendimento del T-Bill 1 mese in rapporto all’Euribor 1 mese (1 anno rolling)
Le differenze di tassi di interesse si riflettono nella performance relativa dei fondi o Etf che investono su Wall Street o sul reddito fisso in dollari rispetto ai corrispondenti hedged. Nel grafico qui sotto vediamo il confronto tra l’indice S&P500 in dollari e la sua versione in euro coperta dal rischio di cambio. In sostanza, nelle fasi indicate dalle barre verdi, le strategie unhedged hanno registrato performance migliori, principalmente perché non hanno dovuto sopportare l’onere della copertura e hanno quindi potuto beneficiare dell’apprezzamento del biglietto verde
Differenziale di rendimento tra l’indice S&P500 in dollari e la versione Euro hedged (1 anno rolling)
Gli investitori che decidono di coprire il rischio di cambio, inoltre, devono prestare attenzione al profilo commissionale. I dati Morningstar mostrano che queste strategie tendono ad essere più care (anche se non mancano eccezioni).
Quando mettersi al riparo
Possiamo concludere, dunque, che le strategie di hedging valutario hanno il vantaggio di ridurre il rischio di cambio, ma il prezzo da pagare è un maggior costo, che impatta negativamente sulla performance potenziale – questo costo può essere più o meno alto a seconda dei tassi, delle condizioni macro ecc. . Prima di optare per questa opzione, è bene guardare alla relazione attesa tra il ritorno dello strumento finanziario nella sua divisa locale (ad esempio il dollaro) e i tassi di cambio. “Questo rapporto deve essere positivo per giustificare la copertura”, dice Sotiroff, “perché una correlazione positiva fa sì che il currency risk accresca la volatilità della classe di attività in valutare estera”.
L’articolo è stato realizzato in collaborazione con Francesco Paganelli, analista del Manager research team di Morningstar.
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Lo studio Morningstar The Currency hedging dilemma, curato da Daniel Sotiroff, è disponibile sulla piattaforma per professionisti, Morningstar Direct. Clicca qui per conoscere le sue funzionalità.
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