Guerra commerciale, ora l’accordo è più lontano

Bloccata la “fase uno” del deal, che sembrava a un passo. Le parti si rimbalzano le responsabilità, con Pechino che non vuole impegnarsi in quote di ordini agricoli e Washington che non intende fare marcia indietro sulle misure intraprese verso i colossi tecnologici cinesi.

Valerio Baselli 20/11/2019 | 09:33
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Tutto da rifare. Malgrado l’ottimismo generale, l’accordo tra Stati Uniti e Cina sulla riduzione graduale dei dazi introdotti nell’ultimo anno e mezzo da entrambe le parti non s’ha da fare. Almeno per ora. In un susseguirsi di notizie e rumor riportati dalla stampa internazionale, si è arrivati allo stallo.

Tuttavia, alcune parti dell’intesa sono già state approvate dai due paesi, compresi gli impegni cinesi in materia di trasparenza valutaria e l’accesso al mercato cinese per le società di servizi finanziari statunitensi.

Secondo il Financial Times, l’amministrazione Trump ha fatto trapelare la propria frustazione per non essere riuscita a convincere le autorità cinesi a offrire concessioni sufficienti a giustificare una riduzione dei dazi sui beni importati negli Usa, come ad esempio l’abbandono della Forced Technology Transfer, una pratica in cui un governo nazionale obbliga le imprese straniere a condividere la propria tecnologia in cambio dell’accesso al mercato. La settimana scorsa, il presidente Trump ha dichiarato che le tariffe potrebbe addirittura aumentare a partire dal 15 dicembre se non si dovesse trovare un accordo (attualmente siamo intorno ai 550 miliardi di dollari di dazi).

Dall’altro lato, Gao Feng, portavoce del ministro cinese del commercio, ha affermato nel corso di una conferenza stampa che la guerra commerciale è cominciata con dazi aggiuntivi imposti dagli Stati Uniti e che dovrebbe quindi concludersi col il ritiro di questi.

Inoltre, come riporta il Wall Street Journal, la Cina sembra poco propensa a impegnarsi a un acquisto obbligatorio di prodotti agricoli statunitensi (si era parlato di 50 miliardi di dollari all’anno per almeno due anni), come invece vorrebbero gli americani.

Nodo tecnologia
Lo scoglio forse più importante che ha bloccato le trattative riguarda i colossi tecnologici cinesi. L’amministrazione Trump sembra intenzionata a non toccare per ora le restrizioni sul trasferimento tecnologico (che riguardano soprattutto Huawei), per ragioni legate alla sicurezza nazionale.

Nel maggio scorso, infatti, un comunicato del Dipartimento Usa del commercio sanciva l’aggiunta di Huawei nella lista delle società che non possono fare affari con gli Usa. Il motivo, spiegato nel documento, è che “ci sono ragionevoli motivi per credere che Huawei sia coinvolta in attività contrarie alla sicurezza nazionale o agli interessi all’estero degli Stati Uniti”.

Il risultato è stato che società come GoogleQualcommBroadcomIntelXilinxQorvo, and Analog Devices hanno smesso di fornire alla società di telefonia cinese i loro servizi e i loro prodotti tecnologici.

Secondo Tao Wang, capo economista di UBS, i giganti tecnologici cinesi non saranno risparmiati da tali politiche anche nel caso in cui l’accordo verrà siglato. “Una volta intrapresa questa strada è molto difficile, per qualsiasi politico, tornare sui propri passi e dire ‘non mi importa della sicurezza nazionale’. Perciò crediamo che le restrizioni americane verso le società tech cinesi potrebbero anche indurirsi, accordo o non accordo”, ha commentato in un’intervista rilasciata a Cnbc lo scorso 12 novembre.

Niente panico, ciò che conta sono le valutazioni
La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti è da diversi mesi una delle principali fonti di preoccupazione per gli investitori. Tuttavia sebbene le evoluzioni geopolitiche siano importanti, è fondamentale ragionare in un’ottica di lungo periodo e soprattutto di fondamentali economici. L’attualità politica è appassionante, ma le copertine dei giornali hanno raramente un impatto diretto sugli investimenti. 

“Spesso ci chiedono in che modo la trade war possa influenzare i mercati o più in generale cosa potrebbe succedere sui listini in futuro – si legge in un recente report a cura del team di gestione di Morningstar Investment Management – pensiamo che porre questo tipo di domande sia pericoloso, non tanto per la domanda in sé ma per l’importanza che spesso si dà alla risposta”.

“La guerra commerciale ci preoccupa nella misura in cui modella il sentiment del mercato e quindi la dinamica dei prezzi dei titoli”, prosegue il report. “Dato che siamo investitori orientati al valore (valuation-driven investor) cerchiamo di acquistare asset che riteniamo sottoprezzati. Lo facciamo attraverso una serie di pilastri analitici: rendimenti attesi a 10 anni in termini assoluti, rendimenti attesi in confronto ad altri asset, analisi dei rischi fondamentali e indicatori contrarian”.  

Insomma, la cosa più importante è non speculare sulle reazioni a breve termine (ad esempio sul fatto che un possibile accordo possa far schizzare i prezzi dell’equity Usa e cinese), che per definizione sono imprevedibili, bensì concentrarsi sull’essenziale e porsi le giuste domande: questo evento cambia i fondamentali di quell’azienda o di quel settore? Dovremmo rivedere la nostra tesi d’investimento?

Secondo la ricerca Morningstar, ad esempio, attualmente il settore tecnologico americano è leggermente sopravvalutato (rapporto prezzo/giusto valore pari a 1,05 al 15 novembre 2019).

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Fonte: Morningstar.

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Titoli citati nell'articolo

Nome TitoloPrezzoCambio (%)Morningstar Rating
Alphabet Inc Class A188,40 USD-3,59Rating
Analog Devices Inc207,77 USD-2,83Rating
Intel Corp19,30 USD-5,58Rating
Qorvo Inc68,50 USD-3,45Rating
Qualcomm Inc153,05 USD-3,08Rating

Info autore

Valerio Baselli

Valerio Baselli  è Giornalista di Morningstar.

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