Gestori indicizzati, 3 incentivi per votare in assemblea

Negli Stati Uniti, index fund ed Etf hanno quote sempre più significative nelle aziende quotate. Cresce il loro ruolo nelle decisioni di governo societario, anche sui temi ESG. Ma serve più trasparenza sulle attività di azionariato attivo e più collaborazione.

Sara Silano 22/11/2019 | 08:46
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I grandi gestori di fondi indicizzati ed Etf (Exchange traded fund) hanno più di una ragione per essere attivi nel dialogo con le imprese che hanno in portafoglio (in termini tecnici si parla di engagement) e per votare nelle assemblee generali. Possono quindi giocare un ruolo di primo piano sulle questioni ambientali, sociali e di governance.

Lo sanno bene a Wall Street, dove molti di loro sono sempre più protagonisti nella stagione dei general meeting. D’altra parte, oltreoceano circa il 50% degli asset dei fondi azionari è in strumenti indicizzati e il settore è sempre più concentrato. Dal 2005 al 2018, la quota dei principali cinque index fund provider è passata dal 35 al 51%. Le stime del National Bureau of Economic research indicano che la percentuale di titoli dell’S&P 500 “controllata” da BlackRock, Vanguard e State Street è passata dal 13,5 al 20,5% tra il 2008 e il 2017.

La crescente porzione di azioni in mano a gestori passivi, insieme all’aumento della concentrazione nell’industria degli investimenti ha importanti implicazioni sul modo in cui gli asset manager sapranno incidere nelle scelte societarie delle partecipate. “Le decisioni di lungo-periodo delle aziende sui rischi legati ai fattori ambientali, sociali e di governance (ESG) sono e continueranno a essere influenzate dall’approccio dei grandi operatori di strategie indicizzate”, si legge in un report dal titolo Asset managers as steward of sustainable business, curato da Jackie Cook, responsabile della Stewardship research di Morningstar.  

Voti, ma non vendi
La ricercatrice indica tre grandi incentivi all’attivismo di questi attori. Il primo è il fatto che possono votare, ma non vendere. I fondi indicizzati, infatti, dovendo replicare fedelmente il benchmark non possono uscire arbitrariamente e in qualsiasi momento dalle aziende e sono in questo senso obbligati a far sentire la loro voce e prendere posizione nelle assemblee per indirizzare le imprese verso uno sviluppo sostenibile di lungo termine.

Il vantaggio delle economie di scala
Il secondo incentivo deriva dal fatto che avendo quote significative delle società nei panieri di riferimento, i grandi asset manager catturano una larga fetta del valore generato dai miglioramenti nel governo societario e raggiungono economie di scala nello svolgere attività di monitoraggio, engagement e voto in assemblea. “La partecipazione attiva alle imprese è costosa”, spiega Cook, “e il ritorno non giustifica spesso lo sforzo, a meno di distribuirlo su tutta la base di imprese partecipate”. In pratica, i gestori passivi tendono ad avere comitati per la stewardship centralizzati, in modo tale che i risultati, in termini di riduzione dei rischi, vadano a vantaggio di tutta la gamma offerta.

Un brand più forte
Il terzo incentivo è legato alle caratteristiche dell’industria degli investimenti indicizzati, in particolare alla forte competizione e battaglia sui costi. Gli operatori hanno, quindi, bisogno di elementi per differenziarsi e la partecipazione attiva alla vita delle imprese è uno di questi, che permette di rafforzare il brand. E’ vero che gli investitori sono sempre più attenti ai costi, ma anche a quello che hanno in portafoglio e al modo in cui i gestori si “prendono cura” dei loro patrimoni. Possiamo classificarla come una “operazione di immagine”? Non proprio, perché questo terreno competitivo induce gli asset manager a non lesinare troppo sulle spese per le attività di engagement.

Engagement e nuove norme
Gli studi mostrano che il fenomeno non è solo americano. A livello globale, i gestori passivi stanno assumendo un ruolo più attivo attraverso attività di engagement e proxy voting, ma resta molta strada ancora da fare. Le cosiddette big three (BlackRock, Vanguard e State Street), tutte tre americane, ad esempio, utilizzano come strategia principale di stewardship il dialogo attivo con le aziende in portafoglio. Su tali pratiche, spiega Cook, non c’è molta trasparenza a differenza delle dichiarazioni di voto in assemblea, perché vengono svolte in privato. “Gli investitori hanno bisogno di una disclosure maggiore per conoscere come sono condotte queste attività, in quale misura si integrano con il voto e se ci sono forme di collaborazione con altri operatori per massimizzarne l’effetto”, dice la ricercatrice di Morningstar, la quale sottolinea che le iniziative congiunte (ad esempio la coalizione Climate Action 100+) abbiano diversi vantaggi rispetto a quelle dei singoli.

Il quadro regolamentare in evoluzione avrà una funzione importante nello sviluppo delle attività di engagement e proxy voting. Da un lato, va nella direzione di una maggior trasparenza; dall’altro alcune proposte minano l’efficacia dell’azionariato attivo. L’esempio più recente viene dalla Sec, l’autorità di vigilanza sui mercati statunitensi, che ha messo in consultazione alcuni emendamenti alla normativa sulle procedure di voto nelle assemblee generali delle aziende. Se fossero approvati permetterebbero, tra l’altro, di escludere delle risoluzioni se si verificano determinate condizioni. In passato, tentativi simili hanno incontrato forti resistenze perché accusati di ridurre i diritti di voto e anche ora stanno attirando aspre critiche. Ma l’esito delle consultazioni non è ancora noto per cui tutte le possibilità restano aperte.

Leggi gli articoli della Settimana Speciale dedicata a Wall Street.

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Info autore

Sara Silano

Sara Silano  è caporedattore di Morningstar in Italia

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