Lo sviluppo degli Etf (Exchange traded fund) negli ultimi anni ha incontrato quello degli strumenti sostenibili. Oggi, in Europa, i fondi passivi rappresentano il 21% del segmento dei prodotti che utilizzano criteri ESG (ambientali, sociali e di governance). Negli ultimi cinque anni, la crescita è stata significativa: nel 2014, la loro quota era del 14%. Lo scorso anno i flussi netti sono stati di circa 120 milioni, 2,5 volte il 2018.
Non è un caso che PRI, l’ente supportato dalle Nazioni Unite che promuove l’adozione di Principi di investimento responsabile, sottoscritti da 2.372 operatori per un patrimonio gestito totale di oltre 86 mila miliardi di dollari (a fine 2019), ha condotto una consultazione per capire le sfide e le opportunità dell’incorporazione dei fattori ambientali, sociali e di governance nella gestione passiva.
Nel rispondere, Morningstar ha sottolineato alcuni punti chiave delle sfide che l’industria ha davanti.
Tassonomia Ue
La prima è l’impatto della tassonomia delle attività eco-sostenibili a cui sta lavorando l’Unione europea per creare un quadro di riferimento nel settore. “E’ possibile che determini la creazione di nuovi indici, che saranno usati come benchmark o sottostanti di prodotti passivi”, spiega Hortense Bioy, responsabile della ricerca sulle strategie passive e sostenibili in Europa per Morningstar. “Potrebbe anche far sì che i benchmark ambientali si affermino come tendenza dominante nell’industria”. Tra gli operatori, tuttavia, non manca qualche preoccupazione sul fatto che l’armonizzazione possa rappresentare un freno all’innovazione, un’eventualità che la ricercatrice considera, però, poco probabile.
Integrazione dei fattori ESG
La seconda riguarda l’incorporazione dei fattori ESG nei prodotti. Secondo Morningstar, le tre principali sfide in questo campo sono la coerenza dei dati, la loro disponibilità e la trasparenza degli indici.
Azionariato attivo
La terza è collegata alle attività di azionariato attivo dei gestori passivi (engagement e proxy voting), per le quali i tre principali rischi sono quelli di un comportamento opportunistico (fare affidamento su altri operatori perché facciano il grosso del lavoro, in modo da non doverne sostenere in proprio i costi), di carenza di risorse e ricerche e di dover dimostrare che queste iniziative diano un contributo alle performance complessive.
Altre criticità individuate dai ricercatori di Morningstar sono i vincoli imposti dalla necessità di replicare fedelmente un indice, che potrebbe entrare in contrasto con le scelte “sostenibili” e la continua evoluzione delle metodologie di rating ESG, che genera confusione e incertezza.
Le proposte
Passando dalle sfide alle proposte, ci sono due ordini di questioni.
La prima è sul come incorporare i criteri ESG nei processi di investimento. Qui entrano in gioco la robustezza dei processi di analisi dei titoli e la trasparenza degli indici. La seconda richiede probabilmente un certo grado di “creatività”, come dice Bioy, da parte dei gestori passivi e riguarda l’engagement con le società che hanno in portafoglio. Dato il crescente peso di questi attori sugli indici azionari, è necessario che usino tutti gli strumenti a disposizione e si spingano oltre per promuovere le migliori pratiche aziendali e la riduzione dei rischi ambientali, sociali e di governance. “Non c’è un approccio che va bene per tutti per una stewardship efficace”, dice la ricercatrice di Morningstar. Accanto engagement e proxy voting, c’è spazio per sperimentare altre vie, come ad esempio far conoscere le aziende che non accettano di collaborare oppure amplificare la propria voce entrando in iniziative comuni come il Climate Action 100+.
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