L’espressione private equity (PE) potrebbe essere tradotta con la formula “effettuare investimenti nel capitale di rischio di società non quotate”. Perché di questo si tratta: finanziare (attraverso diversi canali e modalità) le imprese (di solito di piccole dimensioni) che non possono reperire fondi in Borsa, ma solo attraverso il canale bancario.
Si tratta di una modalità d’investimento interessante (sia per gli investitori sia per le società finanziate), ma che non è stata esente da critiche. Andiamo con ordine.
Di cosa si tratta
Il PE è un'attività finanziaria mediante la quale un'entità (generalmente un investitore istituzionale, come una Sgr o un fondo comune) rileva quote di una società non quotata definita “obiettivo” (o target), sia acquisendo azioni esistenti da terzi sia sottoscrivendo azioni di nuova emissione e apportando in questo modo nuovi capitali al target (le società obiettivo possono anche essere quotate, ma intenzionate ad abbandonare la Borsa. In questo caso si parla di going private o di public private equity).
I libri di storia dicono che il private equity è nato nel 1946 negli Stati Uniti, quando venne fondata l’American Research and Development Corporation (ARDC), una società di natura pubblica che raccoglieva capitali da molteplici investitori per fornire capitale di rischio a giovani imprese. In particolare a quelle fondate da reduci della seconda guerra mondiale. In Italia nel 1986 è stata istituita l’Associazione italiana del private equity, venture capital e private debt (AIFI).
In generale, lo scopo è consentire alla società-obiettivo di ricevere finanziamenti che le permettano di crescere e magari successivamente quotarsi in Borsa. I fondi di PE, infatti, hanno di solito una durata prestabilita, che di norma varia dai tre ai cinque anni: una volta raggiunto l’obiettivo di crescita della società, si raccolgono (o di dovrebbero raccogliere) i frutti dell’investimento.
E’ importante sottolineare come l’attività di private equity non comporti esclusivamente il finanziamento da parte di operatori specializzati, ma riguardi anche una vera e propria partecipazione degli investitori al fine di realizzare l’idea imprenditoriale, in modo da poter raggiungere l’obiettivo prefissato. Di solito, infatti, le aziende che ricorrono agli operatori di private equity non lo fanno solo per ottenere della liquidità, ma per essere accompagnate in un percorso che può avere diversi obiettivi: avviare una nuova attività, internazionalizzarsi, affrontare il ricambio generazionale o una riorganizzazione interna.
Come funziona
Semplificando, possiamo dire che le società di PE hanno uno o più gestori che vengono indicati come general partner, mentre gli investitori (banche, fondi pensione, altri fondi d’investimento, assicurazioni o privati) sono conosciuti come limited partner.
Di solito, le operazioni di acquisto vengono effettuate con una parte di capitale e una di finanziamento; in questo caso i prestiti vengono raccolti presso banche e altre istituzioni specializzate in questo genere di operazioni.
I general partner, che diventano azionisti delle imprese acquisite, possono generare guadagni a favore della loro società in due modi: attraverso l’addebito sul fondo di commissioni periodiche a titolo di fee di gestione o con formule tipo i carried interest (una forma di profitto riconosciuta al gestore quando vengono raggiunti determinati obiettivi di redditività di tutto il fondo).
Gli operatori di private equity hanno a loro disposizione una serie di tecniche finanziarie a loro disposizione a seconda del tipo d’investimento che vogliono mettere in atto. Per citarne due: il leverage buyout (acquisizione di un’impresa mediante il ricorso prevalente al capitale di debito che verrà per lo più rimborsato con l’utilizzo dei flussi di cassa positivi generati dall’impresa stessa) o il going private.
Come investire (i pro e i contro)
L’interesse attorno al PE, principalmente, è dato dalla possibilità concreta di ottenere un rendimento superiore a quello di altri strumenti finanziari più tradizionali disponibili sul mercato. Nel medio periodo, infatti, i fondi di PE hanno dato rendimenti superiori a quelli dei mercati borsistici considerati nello stesso lasso temporale. Secondo un recente report di PitchBook, negli ultimi dieci anni a livello globale il private equity ha ottenuto una performance annualizzata del 13% (in termini di IRR - Internal Rate of Return - il sistema con cui si misurano le performance dei fondi PE; è il rendimento netto guadagnato dall’investitore in un particolare periodo calcolato sulla base dei flussi di denaro da e verso gli investitori e dopo aver pagato le commissioni e gli interessi), contro il 9% dello S&P 500.
Il maggiore rendimento è giustificato non solo dal maggiore profilo di rischio che può caratterizzare gli investimenti di private equity, ma anche dalla minore liquidità rispetto ad altre tipologie di investimenti (ad esempio le società quotate). Per gli investitori istituzionali, poi, i fondi di private equity rappresentano anche un’opportunità di diversificazione del proprio portafoglio con una asset class meno correlata ai mercati azionari e obbligazionari.
Ci sono diversi modi per investire in PE: innanzitutto, acquistando quote delle società di private equity quotate, oppure tramite un fondo comune specializzato su aziende del settore presenti sui listini. In Italia sono disponibili comparti come il SEB Listed Private Equity Fund C, l’Esperia Funds SICAV Duemme Private Equity Strat C Cap o l’Aberdeen Standard SICAV I - Listed Private Capital Fund A Acc, oltre ai due Exchange traded fund quotati su Borsa Italiana Lyxor Privex UCITS ETF Dist (EUR) e Xtrackers LPX Private Equity Swap UCITS ETF 1C (EUR). Questi ultimi replicano degli indici rappresentativi di panieri di società di PE. Esistono anche i fondi di fondi, che garantiscono una maggiore diversificazione, ma che sono la via più costosa, dato che si aggiunge un ulteriore livello di intermediazione.
Fondi chiusi
Lo strumento più diffuso per investire in operazioni di private equity, tuttavia, resta quello dei fondi mobiliari chiusi, i quali presentano delle caratteristiche strutturali ben diverse da quelle dei fondi aperti.
Quando il fondo è connotato da una struttura chiusa l’ammontare del fondo e il numero delle relative quote viene prefissato al momento della sua costituzione e il rimborso interviene alla scadenza della durata del fondo. Inoltre, gli importi sottoscritti non vengono versati immediatamente, ma nel tempo secondo le esigenze di liquidità del fondo.
Diversamente dal fondo mobiliare aperto, poi, l’investitore non è libero di cedere in ogni momento le quote da lui sottoscritte, anzi, in genere tale fattispecie è di norma esclusa; il riscatto non è previsto prima della fine della durata del fondo, che, in genere, non è inferiore ai dieci anni. Da questo punto di vista, quindi, il comparto di private equity presenta rischi superiori. Circa la cessione delle quote ad altri investitori prima del termine di durata del fondo, va rilevato che questa fattispecie è in genere subordinata all’accettazione da parte del gestore, oltre al fatto che il nuovo investitore possieda le caratteristiche di volta in volta previste dalle diverse normative per poter investire in tale strumento.
Da questo punto di vista, però, occorre dire che la presenza, anche in Italia, di un numero sempre maggiore di operatori ha consentito lo sviluppo di un importante ed efficace “mercato secondario”, riducendo e semplificando i tempi di liquidabilità degli investimenti.
Chi può investire?
La normativa Mifid 2 stabilisce che solo gli investitori professionali possono utilizzare questo tipo di strumenti. Tuttavia, è consentita la sottoscrizione di fondi chiusi di private equity anche a investitori non professionali che rispettino certi parametri dimensionali. Questi investitori non professionali possono sottoscrivere quote di fondi di private equity per un valore complessivo non inferiore a 500mila euro.
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