Il futuro della consulenza finanziaria non può prescindere da alcuni punti fermi: formazione continua, riconoscimento del proprio ruolo, ascolto e pedagogia nel rapporto col cliente, fiducia e leadership. Questi i temi principali affrontati lo scorso martedì 10 novembre durante la tavola rotonda – che ho avuto il piacere di moderare – che ha chiuso la Morningstar Investment Conference 2020, la prima interamente digitale (per ovvie ragioni, purtroppo), alla quale hanno partecipato Massimo Scolari (presidente di Ascofind) e Rocco Minnici (psicologo e mental coach).
La pandemia, in questo senso, non ha certo aiutato. “L’incertezza è totale. Ragionare sugli obiettivi di lungo periodo in questa situazione sembra non bastare più”, ha commentato a margine dell’evento Mirko, un private banker. Come possono i consulenti, orientarsi ed orientare il cliente? “Sfortunatamente, l’incertezza è la condizione abituale con la quale dobbiamo confrontarci quotidianamente”, ha spiegato Massimo Scolari. “Affrontare l’incertezza positivamente comporta acquisire informazioni e saperle interpretare correttamente. In una parola: studiare. Altre scorciatoie non ne vedo. Solo così il cliente riconosce il valido supporto da parte di un consulente qualificato”.
“Per supportare i clienti in modo più chiaro e risoluto possibile e per far fronte all'incertezza, un consulente dovrebbe avere una grande fiducia in se stesso e nelle proprie capacità. Tali caratteristiche gli permetterebbero di guidare i clienti verso ragionamenti e obiettivi di lungo periodo”, ha aggiunto Rocco Minnici.
Il (difficile) riconoscimento del ruolo
Un altro importante aspetto che è stato toccato durante la tavola rotonda ha riguardato il ruolo sociale dei consulenti finanziari, da cui passa anche la reputazione dell’intera categoria. “I consulenti devono conoscere profondamente i propri clienti e porsi verso di loro in un ruolo di leadership”, ha affermato Scolari, “in modo da essere riconosciuti dai clienti come persona competente e affidbile nel proprio campo, come lo sono i commercialisti, gli avvocati o i notai. Sono queste le figure verso cui il consulente finanziario deve guardare”.
“I singoli consulenti dovrebbero partire da una domanda”, ha commentato Minnici, “e cioè: io riconosco nel mio lavoro il valore della consulenza per i miei clienti? Perché il salto di qualità deve partire dall’interno della categoria per poi arrivare all’esterno”. Insomma, il primo passo dev’essere un’analisi del proprio ruolo: cosa faccio? In che modo? Per chi? Cosa porto in più di altri? Qual è il valore aggiunto che posso dare? È da lì che parte poi il riconoscimento da parte della società nel suo complesso.
Soft skills non affatto “soft”
Un valore aggiunto che non nasce solo dalle competenze tecniche o dalle pure performance di portafoglio, ma anche (e soprattutto) da quelle qualità relazionali e interpersonali che possono far la differenza, in particolare in un momento di forte stress come l’attuale.
“Il tema centrale è l’approccio al rischio e non si deve per forza trattare solo di rischio finanziario, perciò il consulente deve possedere la capacità di gestire il rapporto umano – ha sostenuto Massimo Scolari – Personalmente suggerisco di abolire la definizione di soft skills, in quanto detta così sembra che vengano dopo le cosiddette hard skills, di natura finanziaria, il che non è affatto vero”.
Poco spazio per i giovani
Altro punto dolente, secondo i dati dell’Ocf (Organismo di vigilanza e tenuta dell'albo unico dei consulenti finanziari), è l’età media dei consulenti finanziari iscritti all’Albo, che è di circa 51 anni. Inoltre, gli advisors under-30 sono meno del 2% del totale. In pratica un lavoro che sta rischiando di restare appannaggio di professionisti sempre più avanti con gli anni.
Una delle conseguenze principali è una scarsa propensione all’innovazione. “Non si deve generalizzare, ma le persone che appartengono alla generazione degli ultra cinquantenni risultano a volte scarsamente propensi all’ innovazione e all’utilizzo delle tecnologie digitali. In questo senso, le giovani generazioni sono più ottimiste e predisposte ad affrontare i cambiamenti del contesto in cui viviamo”, ha affermato Scolari.
Non bisogna poi sottostimare lo stereotipo culturale che possono avere i clienti, ha ricordato Minnici. “È pensiero comune che chi sa gestire denaro ha esperienza e l'esperienza è data dall'età, ciò porta molti giovani che si affacciano a questa professione ad avere difficoltà nel crearsi un giro clienti, molti infatti abbandonano”.
“La difficoltà principale per i giovani consulenti consiste nell’acquisire un portafoglio di clienti sufficiente a garantire un reddito dignitoso”, ha concluso Scolari. “Credo che le principali reti di consulenti debbano ripensare seriamente al proprio modello di business e alle politiche remunerative. Il modello di remunerazione è ancora fondato sulla vendita dei prodotti e non sulla consulenza. Solo un cambiamento del paradigma potrà consentire ai giovani consulenti di intraprendere la professione”.
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