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Pensioni, l’Islanda è campione del mondo

Secondo la classifica sui sistemi pensionistici nazionali stilata da Mercer, completano il podio Paesi Bassi e Danimarca. L’Italia si piazza al 32esimo posto su 43, ma rimane fanalino di coda per quanto riguarda la sostenibilità. E sul “gender gap” si deve agire subito.

Valerio Baselli 28/10/2021 | 09:27
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Pensioni

Il regime previdenziale dell’Islanda, al suo debutto all’interno dell’analisi, è risultato il migliore del mondo secondo il 13° Global Pension Index annuale compilato dal Mercer CFA Institute. I Paesi Bassi e la Danimarca si sono classificati rispettivamente al secondo e terzo posto, dopo un decennio in cui si sono alternati al vertice. Molto bene anche Israele, Norvegia e Australia. In fondo alla classifica, invece, troviamo Thailandia, Argentina e Filippine.

L’Italia, dal canto suo, si piazza in 32esima posizione su 43 paesi presi in cosiderazione. Interessante notare che, rispetto al 2020, la Cina (28esima) e il Regno Unito (nono) sono i due regimi che hanno fatto il più grande balzo in classifica, rispettivamente grazie alla significativa riforma previdenziale che ha migliorato le prestazioni per i cittadini e la nuova normativa in materia pensionistica.

Lo studio
Il Global Pension Index è uno studio approfondito dei regimi pensionistici globali che copre due terzi (65%) della popolazione mondiale. Confronta i sistemi previdenziali di tutto il mondo mettendo in luce le lacune di ogni ordinamento e suggerendo possibili aree di riforma che assicurerebbero un trattamento pensionistico più adeguato e sostenibile. Sotto il termine “sistema pensionistico” s’intende la somma di previdenza pubblica, complementare e del risparmio previdenziale, anche attraverso strumenti assicurativi e di risparmio gestito. La classifica finale si basa su oltre 50 indicatori suddivisi in tre macro-aree: adeguatezza, sostenibilità e integrità.

Con adeguatezza si intende il livello delle prestazioni erogate per la media dei lavoratori e la flessibilità del sistema che consente, ad esempio la possibilità di trasferire la posizione pensionistica individuale da un fondo privato a un altro. All’interno della macro-area sostenibilità, invece, si trovano indicatori quali la percentuale di adesione a fondi di previdenza complementare e a fondi pensione, aspetti demografici e alcune evidenze macroeconomiche come contribuzione e debito pubblico. La macro-area integrità, infine, considera diversi elementi di normativa e governance del rischio pensionistico, così come il livello di fiducia che i cittadini di ogni paese hanno nel loro sistema. Il valore dell’indice rappresenta quindi una media ponderata dei punteggi in queste tre diverse macro-aree.  

I modelli previdenziali classificatisi nelle prime tre posizioni hanno tutti ricevuto un punteggio pari ad A e sono risultati sostenibili e ben gestiti e in grado di fornire vantaggi significativi ai beneficiari.

Sistema previdenziale italiano insostenibile
L’analisi rivela che l’Italia rimane in discreta posizione per integrità e adeguatezza, ma resta all’ultimo posto della classifica quando ci si riferisce all’indice legato alla sostenibilità, il quale, riassumendo al massimo, misura la capacità del sistema pensionistico di continuare a garantire gli attuali livelli di erogazione nel futuro.

“A fonte della buona pratica di assoggettare i fondi pensione a politiche e strategie di investimento ESG, l’Italia soffre per la presenza di una bassa quota di previdenza complementare integrativa sul Pil del paese, nonostante un trend in miglioramento”, commenta Marco Valerio Morelli, amministratore delegato di Mercer Italia e presidente di Assoconsult.“Il nostro sistema è ancora molto basato sul primo pilastro, che è inserito nel bilancio dello Stato, mentre i regimi più sostenibili sono quelli che hanno affiancato a questo sistemi di pensione complementare e individuale di secondo e terzo pilastro che rafforzano di gran lunga la capacità di percepire un’entrata sostenibile quando si esce dal mercato del lavoro.”

“In Italia – continua Morelli – viviamo ancora una politica retributiva basata sul reddito fisso. Se ci si allontanasse da questo modello, avvicinandosi per esempio a quello anglosassone, si potrebbe legare lo stipendio a una parte variabile da dedicare all’investimento pensionistico. Un’altra possibile soluzione al problema potrebbe essere l’aumento del numero di persone coperte da previdenza pubblica e privata. Pensiamo anche all’introduzione di un modello di pension credit, dove una quota di contributi figurativi rimarrebbe a carico del datore di lavoro. Una scelta che garantirebbe continuità previdenziale a chi fosse obbligato a uscire dal mercato del lavoro per un periodo della propria vita. Si pensi, ad esempio, a quanto accaduto con la crisi pandemica e all’abbandono massivo del lavoro da parte delle donne per potersi occupare della famiglia”, conclude Morelli.

Il gender gap pensionistico deve essere affrontato
L’indice ha anche analizzato la disparità di trattamento tra donne e uomini dal punto di vista previdenziale nei paesi coinvolti. In particolare, il professor David Knox,Senior Partner di Mercer e autore principale dello studio, ha messo in luce che non c’è un’unica causa alla base dello scarto tra donne e uomini in materia di trattamento previdenziale, anche se a livello geografico emergono molte differenze in termini di reddito da pensione tra i due sessi.

“Le cause del divario di genere in questo ambito sono svariate. Ogni paese o regione presenta aspetti relativi all’occupazione, all’impostazione del sistema previdenziale e fattori socioculturali che contribuiscono a creare uno svantaggio per la popolazione femminile in termini di assegno pensionistico percepito”, commenta il professor Knox in una nota.

Gli aspetti legati all’occupazione sono ben noti e incidono in misura significativa: per esempio le donne svolgono più spesso degli uomini un lavoro part time, versano i contributi in maniera meno regolare perché spesso devono interrompere il lavoro per mansioni di accudimento, hanno uno stipendio medio inferiore. Tuttavia lo studio sottolinea che il problema è aggravato dalle lacune del sistema pensionistico: la non obbligatorietà del versamento dei contributi durante il congedo di maternità, l’impossibilità di maturare contributi nei periodi di accudimento dei figli o dei genitori anziani nella maggior parte dei sistemi e la mancanza di indicizzazione dell’assegno percepito, aspetti che hanno una maggiore incidenza sulle donne per via della più lunga aspettativa di vita.

“Sappiamo che colmare il divario di genere sulle pensioni è una sfida enorme, vista la stretta correlazione del settore previdenziale con i modelli reddituali e occupazionali. Tuttavia, non possiamo permetterci di stare a guardare, considerato che la povertà che colpisce la popolazione anziana è più diffusa tra le donne”, spiega Knox. “Sono molte le azioni che può intraprendere il settore previdenziale. Per prima cosa, eliminare le restrizioni sull’ammissibilità ai piani pensionistici collegati a un’attività lavorativa. Indipendentemente da quanto si guadagni, da quanti anni si lavori e per quante ore, tutti devono poter usufruire di un piano previdenziale che garantisca prestazioni adeguate.”

“I fondi pensione possono introdurre la possibilità di maturare contributi anche per coloro che prestano attività di accudimento a bambini e anziani. Questi lavoratori forniscono un prezioso servizio alla comunità e non devono essere penalizzati una volta in pensione per essere stati fuori dalla forza lavoro formale”, conclude Knox.

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Info autore

Valerio Baselli

Valerio Baselli  è Giornalista di Morningstar.

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