Sono passati sei anni dal referendum sulla Brexit e 18 mesi da quell’accordo trovato in extremis il 24 dicembre 2020 – in piena pandemia – dopo oltre quattro lunghissimi anni di negoziati, il quale riuscì a scongiurare l’ipotesi peggiore: quella di un No Deal.
Ma gli strascichi di una decisione così importante e complessa da realizzare sono tutt’altro che sopiti. Lo scorso 28 giugno, la Camera dei Comuni ha approvato un controverso progetto di legge che consentirebbe ai ministri di modificare l’accordo del 2019 tra Regno Unito e Unione europea. In sostanza, l’accordo stabiliva che l’Irlanda del Nord sarebbe rimasta parte del mercato unico europeo per evitare la possibile reintroduzione di un confine fisico con la Repubblica d’Irlanda. Tuttavia, Londra non è mai riuscita ad accettare l’idea che l’Irlanda del Nord, pur facendo parte del Regno Unito, rimanga all’interno dell’Unione doganale europea, perché questo significa di fatto trattare la Gran Bretagna come un paese terzo.
La nuova legge, quindi, punta a riscrivere alcune parti del protocollo nordirlandese, che è parte integrante dell'accordo sulla Brexit. Bruxelles, da parte sua, ha già fatto sapere che la revisione unilaterale dei patti rappresenta una violazione del diritto internazionale e che tale mossa potrebbe addirittura portare a delle sanzioni di tipo finanziario. Londra ha ora due mesi per giustificare il disegno di legge. E se la risposta non dovesse essere ritenuta soddisfacente, il caso passerà alla Corte di giustizia europea.
BoJo lascia… ma non subito
Dopo molte resistenze, il premier inglese Boris Johnson si è dimesso da leader del Partito conservatore, con l’impegno a lasciare in automatico anche la carica di primo ministro dopo l’elezione di un successore alla testa dei Tory (attesa per ottobre). Le pesanti dimissioni rassegnate lo scorso 5 luglio dal cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak, e dal ministro della Salute, Sajid Javid, avevano già fatto intravedere la fine per il governo. Il Regno Unito, ora, si trova di fatto ad affrontare uno stato di sospensione per i prossimi tre mesi.
“Johnson si è spesso orientato verso politiche populiste e, sebbene sarà sempre ricordato per la Brexit, anche la recente politica fiscale ha seguito un approccio simile”, spiega in una nota Azad Zangana, senior european economist di Schroders. “È possibile che ciò abbia favorito la crescita nel breve termine, ma ha anche contribuito a un aumento dell'inflazione e del debito pubblico. La recente decisione di aumentare le imposte sulle aziende, invece di quelle sulle persone fisiche o sulle vendite, ne è solo un esempio”.
L’economia britannica un anno e mezzo dopo Brexit
Secondo le analisi dell’Ocse, il Prodotto interno lordo del Regno Unito dovrebbe crescere del 3,6% nel 2022 (dopo il +7,4% del 2021) e rimanere sostanzialmente invariato nel 2023. Secondo il Fondo monetario internazionale, nel 2023 il Regno Unito avrà la crescita economica più deludente tra i Paesi del G7 e sarà colpito maggiormente dall’inflazione.
A questo proposito, un dato che non è passato inosservato è stato quello sull’inflazione registrata a maggio: +9,1% su base annua, il massimo da 40 anni a questa parte e il balzo più alto tra quelli vissuti nei Paesi del G7. Oltre ai costi energetici, tra i principali motori dell’inflazione ci sono i prezzi dei prodotti alimentari e delle bevande analcoliche, cresciuti dell’8,7% in termini annui a maggio, l’aumento più grande da marzo 2009. In effetti, un tale picco potrebbe essere spiegato anche dalla Brexit, che ha reso l’economia britannica più chiusa rispetto a prima.
“Il Regno Unito importa circa un terzo del proprio fabbisogno energetico, quindi l'aumento dei prezzi del petrolio e del gas provocato dalla guerra ha comportato un indebolimento della crescita e un aumento dell'inflazione. E tutto ciò si è aggiunto ad un'ondata inflazionistica in corso che rifletteva in gran parte gli squilibri domanda-offerta legati alla pandemia”, afferma Silvia Dall’Angelo, senior economist di Federated Hermes. “Negli ultimi 18 mesi, il processo di Brexit ha probabilmente aumentato i vincoli lato offerta, tanto che è stato obiettivamente difficile distinguere gli effetti inflazionistici legati alla pandemia da quelli legati alla Brexit. Infatti, le nuove regole hanno rivoluzionato l'attività commerciale - soprattutto nei rapporti con l'UE, ancora uno dei principali partner commerciali del Regno Unito, mentre ulteriori limiti alla migrazione - già compromessa a causa della pandemia - hanno acuito la carenza di manodopera,” prosegue l’economista.
Secondo Dall’Angelo, comunque, “è ancora troppo presto per valutare il pieno impatto della scelta di Brexit sull'economia del Regno Unito. Il processo di riorganizzazione al di fuori del quadro dell'UE richiederà alcuni anni e sarà aggravato da quelli che sono gli sforzi per rendere l'economia più verde, più competitiva ed inclusiva. Le probabilità di una recessione”, conclude, “sono di circa il 50% per la seconda metà di quest'anno e salgono per il prossimo anno”.
Da dicembre 2021, la Bank of England ha alzato i tassi di interesse dallo 0,1% all’attuale 1,25%. La sterlina è sotto pressione ormai da inizio anno essendo in calo del 12% contro il dollaro mentre da marzo - cioè da quando la Federal Reserve ha iniziato ad agire aggressivamente sui tassi di interesse - perde ben l’8%. Secondo Federico Vetrella, Market Strategist di IG Italia, “l’inarrestabile ascesa del dollaro, alimentata da una politica monetaria restrittiva con i tassi ormai orientati verso una stima del 3,25% - 3,5% a fine anno, sta aumentando i timori per un’ulteriore svalutazione della sterlina inglese nel breve/medio periodo”.
L’equity britannico è sottovalutato
Se prendiamo in considerazione le regioni sviluppate, il Regno Unito è quello che sta soffrendo di meno dall’inizio dell’anno. Al 7 luglio, il Morningstar UK Index perde il 4%, contro il -17,6% del Morningstar Eurozone, il -9,4% del Morningstar Global Market e il -9,3% del Morningstar US Market (dati in euro).
“Una delle ragioni alla base della resistenza dell’indice azionari britannico può essere spiegata dalla sua composizione settoriale, con i beni di consumo e i titoli farmaceutici – due settori tipicamente difensivi – che rappresentano circa il 17% e il 14% del benchmark”, afferma Clémence Dachicourt, senior portfolio manager di Morningstar Investment Management (MIM). “Anche i prezzi elevati dell’energia hanno giocato a favore della performance del Paese, dato che nomi come Shell o BP, rappresentano il 12% dell’indice complessivo e sono in rialzo di quasi il 15% su base annua alla fine del secondo trimestre”.
Secondo il Global Market Barometer di Morningstar, inoltre, l’azionario UK è attualmente sottovalutato del 15% rispetto al fair value (relativamente ai titoli coperti dall’analisi Morningstar). I dati sono in euro, al 7 luglio.
“L’incertezza politica arriva in un momento in cui il sentiment nei confronti dei titoli azionari britannici è già non particolarmente positivo, come dimostrano le valutazioni delle società UK, in molti casi più basse rispetto a quelle estere, e i recenti dati sui flussi netti sulle azioni britanniche”, afferma Laura Foll, UK portfolio manager di Janus Henderson. “Gli eventi di questa settimana potrebbero far sì che, una volta insediato un nuovo leader, il rischio politico associato all’azionario del Regno Unito venga eliminato. In questo modo, l’incertezza politica che ha costituito parte dell'incognita sui titoli azionari del Regno Unito potrebbe venire superata”.
“L’equity UK è stato a lungo sovrappesato nei nostri portafogli, in quanto ritenevamo che le aspettative degli investitori sull'impatto che la Brexit avrebbe avuto sulle società quotate del Regno Unito fossero eccessivamente pessimistiche”, continua il gestore di MIM. “Il sell-off legato al Covid ha rappresentato per noi un'opportunità per incrementare le nostre posizioni azionarie nel Regno Unito, in quanto gli investitori si sono preoccupati delle prospettive di pagamento dei dividendi, dato che molte società, come quelle finanziarie (17% dell’indice), hanno tagliato i loro dividendi per proteggere il loro bilancio. In questo periodo i dividendi sono scesi del 31%, con il 58% delle società quotate nel Regno Unito che li ha ridotti e il 23% che li ha completamente tagliati. Abbiamo ritenuto che questi tagli ai dividendi fossero più ciclici che strutturali, il che ha giocato a nostro favore in quanto le società hanno ripristinato i dividendi dopo la crisi”.
“Sebbene le azioni del Regno Unito rimangano interessanti da un punto di vista delle valutazioni relative, soprattutto grazie agli interessanti rendimenti da dividendi rispetto ad altre regioni, ciò non è più vero da un punto di vista assoluto, poiché gli investitori non ricevono più un margine di sicurezza positivo quando investono nell’indice britannico”, spiega ancora Dachicourt. “Le aspettative di crescita non sono preoccupanti: le società quotate in UK sono orientate a livello internazionale e solo il 22% dei loro ricavi proviene dal Regno Unito, il che le rende più immuni al rallentamento dell'Europa rispetto alle società orientate a livello nazionale. Detto questo, riteniamo che le valutazioni delle società quotate del Regno Unito abbiano spazio per comprimersi ulteriormente e che le aspettative sugli utili a metà ciclo siano troppo elevate. Pur continuando ad essere positivi sull’equity del Regno Unito, abbiamo recentemente preso profitto e ridotto il nostro sovrappeso”.
L’offerta ETF
Per gli investitori italiani sono disponibili 17 Exchange traded funds che offrono esposizione diretta al mercato azionario britannico, di cui cinque coperti dalla ricerca qualitativa di Morningstar. Qui sotto i dieci più grandi in termini di patrimonio gestito.
Di lunga il più importante in termini di asset, l’iShares Core FTSE 100 UCITS ETF ottiene un Morningstar Analyst Rating pari a Bronze – così come i replicanti di Vanguard e Lyxor – soprattutto grazie al loro innegabile vantaggio di costo (solo 7 punti base di spese correnti per il fondo iShares, rispettivamente 9 e 14 punti base per gli altri due). Gli analisti Morningstar, infatti, sottolineano come il FTSE 100 sia concentrato in titoli a grandissima capitalizzazione, lasciando così gli investitori sottoesposti a parti importanti del mercato britannico (lo stesso vale per l’MSCI UK, benchmark replicato dal fondo targato UBS). L’ETF utilizza la replica fisica completa per tracciare il proprio benchmark. I dividendi distribuiti dalle azioni detenute vengono reinvestiti in contratti futures sul FTSE 100 fino a quando non vengono poi distribuiti agli investitori su base trimestrale. Questo trattamento dei dividendi consente al fondo di mantenere la piena esposizione all'indice e di mitigare il cash drag, che a sua volta aiuta a ridurre al minimo il tracking error. Il fondo effettua prestito titoli.
Lo SPDR FTSE UK All Share UCITS ETF è invece l’unico a ottenere la medaglia d’argento (Analyst Rating pari a Silver). Il FTSE All Share, con circa 650 titoli in portafoglio, copre il 98% del mercato azionario britannico e dedica il 20-25% dei propri attivi a titoli di media e piccola capitalizzazione. Il benchmark ha sovraperformato la media di categoria negli ultimi dieci anni, su una base aggiustata per il rischio. Il fondo SPDR usa la replica fisica ottimizzata per il benchmark. In pratica, l’ETF acquista un insieme di titoli scelti in modo da creare un portafoglio sufficientemente simile a quello del benchmark ma con un numero di componenti inferiore, in modo da ottimizzare i costi di transazione. Il fondo non effettua prestito titoli e ha delle spese correnti di 20 punti base.
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