L’Italia è l’ottava economia mondiale e la quarta europea, ma il suo peso nei panieri delle Borse internazionali è piccolo.
Se prendiamo l’indice Morningstar dell’Eurozona, il Belpaese rappresenta il 6,76%, contro il 32,5% della Francia, il 23,8% della Germania e il 7,9% della Spagna.
Nel paniere azionario europeo (Morningstar Europe), il peso scende al 3,1% e in quello globale allo 0,5%. Rispetto alla fine del 2021, l’Italia è diventata ancora più piccola in Borsa a causa degli effetti della guerra in Ucraina, in particolare l’impennata del prezzo del gas, oltre che dell’incertezza generata dalla crisi politica.
A dicembre, ad esempio, rappresentava il 3,8% dell’indice Morningstar Europe. Al riguardo, però, è bene precisare che è sceso il peso anche di altre economie penalizzate dall’invasione russa in Ucraina, tra cui la Francia e la Germania.
Nessuna azienda quotata italiana è tra le prime dieci per capitalizzazione nell’indice Morningstar Europe, dove ai primi posti troviamo Nestlé, multinazionale svizzera del settore dei beni di consumo, la compagnia farmaceutica Roche e il produttore olandese di semiconduttori ASLM (dati al 29 luglio 2022).
Mercato azionario concentrato in pochi settori
Nonostante il settore energetico abbia riconquistato le posizioni più alte nel paniere europeo, l’Italia non è presente. Eni, che nell’indice Morningstar Italy è terza per capitalizzazione, è al 76esimo posto nel Morningstar Europe, lontano da Shell, che è sesta.
Negli anni scorsi, in cui i titoli tecnologici hanno dominato la scena sulle Borse mondiali, Piazza Affari è stata penalizzata dallo scarso peso di questo settore in Borsa, mentre quest’anno non può contare su una presenza significativa di società farmaceutiche o dei beni di consumo difensivi nel paniere. In realtà, il listino italiano è concentrato in pochi settori: finanziari, beni di consumo ciclici e utilities, che rappresentano oltre il 66% dell’indice Morningstar Italy.
Cosa significa per gli investitori?
“Dato lo scarso peso dell’Italia negli indici europei ed internazionali, gli investitori italiani si indirizzano prevalentemente sulle azioni estere”, dice Nicolò Bragazza, senior investment analyst di MIM (Morningstar Investment Management).
Questo non fa necessariamente male al portafoglio. Negli ultimi anni, i titoli italiani hanno avuto rendimenti contenuti, se non negativi, per cui il posizionamento su mercati esteri ha assicurato performance superiori e questo ha giovato alla loro ricchezza finanziaria”, continua Bragazza.
“La home bias (inclinazione a investire in titoli domestici, Ndr) non è necessariamente un fattore positivo all’interno di un’allocazione di portafoglio. Inoltre, gli investitori italiani possono considerare come mercato domestico (in quanto denominato nella stessa valuta) tutto quello dell’area euro, senza che questo comporti esposizione a rischi valutari”.
Perché il gap di capitalizzazione è difficile da colmare
Il rapporto tra la capitalizzazione di Borsa delle società quotate italiane e il PIL è del 33,1% (dati Consob a fine 2021), un livello inferiore rispetto all’Eurozona, dove uno studio di Banca d’Italia dell’aprile 2020, indica una media del 41%.
Le ragioni del divario sono essenzialmente due:
- il minor numero di società italiane che decidono di quotarsi
- le dimensioni mediamente più piccole delle aziende quotate
Dall’analisi dei ricercatori di Banca d’Italia emerge che il gap è difficile da chiudere a causa “della struttura dell’economia domestica, caratterizzata da piccole e medie imprese (PMI) e dal fatto che solo un numero ristretto di grandi aziende non si è ancora quotato”.
Le leve del cambiamento
Negli ultimi 15 anni, i debutti (IPO) sono aumentati, grazie anche a diverse iniziative, tra cui la creazione del segmento Alternative Investment Market (AIM) di Borsa italiana per le PMI con significativo potenziale di crescita.
Un pilastro essenziale per lo sviluppo delle aziende è il private equity. “Può influire su tre importanti canali di crescita economica: innovazione, produttività e stimolo alla competizione”, spiega Bragazza.
“Esso rappresenta certamente un’opportunità di espansione del mercato finanziario italiano, sia direttamente, tramite la raccolta di capitali, che indirettamente attraverso lo stimolo alla crescita e all’innovazione del tessuto industriale, fattori essenziali per attirare non solo gli investitori italiani ma anche quelli esteri”.
PIR in chiaroscuro
Un supporto ad investire in strumenti finanziari italiani è venuto anche dalla creazione dei Piani individuali di risparmio (PIR), che offrono vantaggi fiscali. Ma questi strumenti hanno avuto alti e bassi, da quanto sono stati introdotti nel 2017. Volatilità dei mercati ed incertezza stanno pesando anche adesso.
Secondo le ultime statistiche di Assogestioni, i PIR ordinari avrebbero accusato 195 milioni di deflussi nel secondo trimestre 2022. E’ positivo, invece, il bilancio per quelli alternativi, ossia quelli che possono investire in ELTIF, fondi di private equity e private debt (+152 milioni). Il patrimonio complessivo è di poco meno di 19 miliardi di euro. Le previsioni per i prossimi mesi restano caute. Nel suo report di agosto sulle small e mid cap italiane, Intermonte stima afflussi pari a 338 milioni di euro per i PIR ordinari, ma aggiunge: “Notiamo che la visibilità rimane molto bassa, sia a causa del contesto generale di mercato che delle specifiche turbolenze politiche italiane”.
Italiani poco propensi all’investimento azionario
Il numero di fondi Azionari Italia è esiguo se confrontato con altri mercati europei, come la Francia e la Germania (vedi la tabella) e anche il patrimonio complessivo è inferiore (sotto i 10 miliardi a fine luglio 2022). L’offerta di fondi domestici, infatti, è sbilanciato sul reddito fisso e i flessibili.
“Gli investimenti in azioni degli italiani sono tradizionalmente bassi rispetto ai principali Paesi avanzati e le famiglie tendono a privilegiare le obbligazioni e l’immobiliare”, dice Bragazza. “Sebbene negli ultimi anni la porzione di titoli governativi nei portafogli degli italiani sia diminuita, nel 2018 esse costituivano ancora circa il 45% del loro portafoglio obbligazionario”.
Tra i fattori istituzionali che spiegano questo fenomeno, c’è la scarsa adesione ai fondi pensione. “Stando ad un report del OECD del 2018, i risparmi gestiti da fondi pensione in Italia equivalgono al 9,4% del PIL, mentre la media OECD è del 50,7%”, spiega Bragazza.
Ci sono anche aspetti comportamentali. Uno studio della Consob ha evidenziato come il 60% del campione di coloro che hanno risposto al sondaggio si dichiari totalmente avverso alle perdite. A questo si aggiunge anche una certa diffidenza nei confronti del settore finanziario in generale”, ammette Bragazza.
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