Il 2022 è un anno molto difficile per tutte le asset class e il mercato azionario americano non ha fatto eccezione: l’indice Morningstar US Market TME NR ha segnato un rendimento del -19,8% l’anno passato in dollari, che grazie al cambio favorevole diventa -14,6% in euro, il che però non gli ha impedito di sottoperformare sia i mercati globali (Morningstar Global TME Index NR) sia quelli della zona euro (Morningstar Eurozone TME Index NR).
Da inizio anno, il vento sembra essere cambiato, con l’indice Morningstar dedicato a Wall Street in rialzo del 4,9% (al 22 febbraio, in euro), in linea con le Borse globali.
Ad oggi, l’economia statunitense non solo non è entrata in recessione, ma sta dando prova di una notevole capacità di adattamento. I mercati continuano a prezzare un futuro rallentamento, ma per ora l’economia reale del paese non sembra essersi ancora avviata su quel percorso di decrescita che numerosi esperti avevano preventivato alla fine dello scorso anno.
Il PIL Usa è infatti cresciuto del 2,9% su base annua negli ultimi tre mesi del 2022, dopo un balzo del 3,2% nel trimestre precedente, superando le previsioni di mercato di un aumento del 2,6%. I dati sono stati rilasciati lo scorso 26 gennaio dallo US Bureau of Economic Analysis.
“Se da un lato riteniamo che il mercato sia significativamente sottovalutato, dall'altro prevediamo che i mercati rimarranno turbolenti nel prossimo futuro”, afferma Dave Sekera, market strategist di Morningstar negli Stati Uniti. “Sulla base della nostra previsione di un’economia stagnante o addirittura in recessione nella prima metà del 2023, pensiamo che la volatilità rimarrà elevata nei prossimi due trimestri. Tuttavia, la combinazione di ripresa economica, moderazione dell'inflazione e prospettive di una politica monetaria più favorevole nella seconda metà del 2023 dovrebbe consentire ai mercati azionari di iniziare a recuperare verso le nostre valutazioni intrinseche di lungo periodo”.
A Wall Street, ETF is King
Tra gli alti e bassi del mercato, rimane una certezza: la solida preferenza degli investitori per la gestione passiva quando si tratta di investire nell’equity Usa. Analizzando la categoria dei fondi azionari Usa large cap blend (la più importante nel panorama azionario a stelle e strisce), vediamo che il gruppo è ormai territorio dei prodotti indicizzati, con quasi tre quarti degli asset gestiti passivamente (414 miliardi di euro sui 578 miliardi totali).
Storicamente, infatti, i grandi indici dedicati al mercato azionario statunitense (in particolare l’MSCI USA e lo S&P 500) si sono rivelati decisamente complicati da battere per i gestori di fondi attivi. Molti attribuiscono queste difficoltà all’altissimo livello di efficienza del mercato azionario americano. Con il termine “efficienza” in questo caso si indica la velocità e la precisione con cui i partecipanti al mercato incorporano nuove informazioni (notizie economiche, dati contabili, ecc.) nei prezzi delle azioni. Inoltre, dati i progressi tecnologici e la crescita della porzione di attività gestite da investitori qualificati, il mercato è diventato sempre più efficiente e liquido nel tempo. Tuttavia, questo aspetto non può spiegare da solo il successo a lungo termine dei fondi indicizzati, almeno di quelli ampiamente diversificati e ponderati per la capitalizzazione di mercato.
Un altro vantaggio non da poco dei replicanti, infatti, è rappresentato dai costi. Per le case d’investimento, i fondi passivi sono intrinsecamente meno costosi rispetto a quelli attivi: i fornitori di index funds non devono pagare un team di gestori e analisti altamente qualificati, oltre ad avere un turnover di portafoglio decisamente inferiore, il che evita tutta una serie di costi accessori (commissioni varie, spread bid-ask).
Detto questo, gli indici ponderati in base alla capitalizzazione di mercato (come appunto l’MSCI USA o lo S&P 500) presentano alcuni inconvenienti degni di nota. Possedendo “il mercato”, gli investitori si affidano ad altri partecipanti per valutare i titoli azionari. Se si considerano lunghi periodi di tempo, questi partecipanti hanno tutto sommato svolto un buon lavoro di valutazione, ma questi lunghi orizzonti sono stati anche contrassegnati da episodi di panico. I benchmark tradizionali sono infatti soggetti a bolle, in quanto naturalmente sovrappesano le azioni che sono aumentate nel loro valore e sottopesano quelle che invece hanno perso terreno. Ad esempio, durante il boom dei titoli dotcom alla fine degli anni ‘90, l'indice MSCI USA era in gran parte esposto a titoli tecnologici, dei media e delle telecomunicazioni, che alla fine crollarono. Quando scoppiò la bolla, il benchmark scese di oltre il 40% e ci sono voluti quattro anni per tornare al valore antecedente al crash.
L’offerta italiana
Gli investitori italiani possono scegliere tra 87 Exchange traded fund dedicati ai titoli azionari large cap blend statunitensi, 19 dei quali coperti dalla ricerca qualitativa di Morningstar. Di questi, contiamo sette con un Morningstar Analyst Rating pari a oro (Gold), altri sette ottengono un argento (Silver), quattro un bronzo (Bronze), mentre a un ETF viene assegnato un rating neutrale.
Nella tabella sottostante presentiamo i primi 10 replicanti coperti dalla ricerca qualitativa di Morningstar per patrimonio gestito.
Con rispettivamente 35 e 23 miliardi di euro in gestione, l’iShares Core S&P 500 UCITS ETF (CSSPX) e il Vanguard S&P 500 UCITS ETF (VUSA) sono di gran lunga i più grandi replicanti di categoria.
Lo S&P 500 è un indice ponderato per la capitalizzazione di mercato aggiustata per il flottante, che racchiude le 500 azioni statunitensi a maggiore capitalizzazione. Nato nel 1957 è considerato il benchmark più rappresentativo della Borsa Usa. A livello settoriale, il portafoglio è dedicato principalmente al comparto tecnologico (26,5%), a quello sanitario (15%), ai titoli finanziari (12%), ai beni di consumo discrezionali (10,6%), agli industriali (8,4%) e al settore elle comunicazioni (8%).
Chiude la tabella l’unico strumento che ottiene un giudizio neutrale, l’Xtrackers S&P 500 Equal Weight UCITS ETF 1C (XDEW), il quale usa la tecnica dell’equi-ponderazione di portafoglio (tutti i titoli hanno lo stesso peso). “In questo modo si crea una strategia con un’inclinazione significativa verso le mid-cap, con storicamente un sovrappeso del 30%-35% rispetto all’S&P 500”, spiega Briegel Leitao, analista di Morningstar.
“In apparenza, ciò riduce la propensione di alcuni titoli a guidare la performance e il rischio, consentendo all'intero gruppo di componenti di dare il proprio contributo, offrendo probabilmente un profilo di rendimento più equo. Tuttavia, il corollario è che la strategia sottoperforma quando poche società a grande capitalizzazione guidano i rally del mercato”, conclude Laitao.
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