Crisi in Medio Oriente: quali gli effetti su petrolio ed energetici

Una nuova crisi petrolifera sembra improbabile, ma è meglio prepararsi a diversi scenari.

Francesco Lavecchia 11/10/2024 | 08:56
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La fiammata del greggio è durata poco dopo l'ultima escalation della crisi in Medio Oriente, ma cosa dobbiamo aspettarci dal prezzo del barile nei prossimi mesi? Al momento il petrolio scambiato sul WTI è quotato attorno a USD74 dollari, in calo rispetto ai livelli toccati in seguito all’attacco del 1° ottobre di Teheran a Israele, ma ben lontano dai picchi di USD116 realizzati dopo l’invasione russa in Ucraina.

Questa reazione cauta del mercato lascia intuire che gli investitori siano fiduciosi nel fatto che il conflitto non avrà effetti sull’offerta di greggio tali da produrre una nuova crisi energetica.

 

Perché un nuova crisi petrolifera è improbabile

È di questo parere anche Allen Good, director of equity research di Morningstar, che sottolinea come le condizioni del mercato del barile siano tali da scongiurare una nuova crisi del petrolio: “Diversamente da quanto accaduto durante la crisi del 1973, ad esempio, ora il mercato è regolato dall'OPEC che cerca di sostenere il prezzo. Inoltre, gli Stati Uniti sono diventati il più grande produttore mondiale di petrolio, dipendono molto meno di un tempo dal greggio del Medio Oriente e ora sono un’economia meno dipendente dal petrolio di quanto non lo fossero in passato.

Per queste ragioni, un eventuale embargo o un'impennata dei prezzi della materia prima potrebbero essere affrontati con un aumento della produzione in tempi relativamente brevi”, afferma Good, che poi sottolinea come, in base agli attuali equilibri geopolitici, sia improbabile che l’allargamento del conflitto nella regione si traduca in uno shock sul mercato dell’oro nero: “Iran e Arabia Saudita sono tradizionalmente rivali, per cui è difficile immaginare che l'Arabia Saudita vada in loro soccorso con un taglio della produzione di petrolio che invece finirebbe per danneggerebbe la Cina, principale destinatario dell’export saudita”.

Maurizio Mazziero, analista finanziario ed esperto di materie prime, afferma in un’intervista rilasciata a Morningstar di non essere preoccupato delle conseguenze che la mancata offerta di petrolio da parte dell’Iran avrebbe sul prezzo del barile e mette in evidenza il ruolo dell’Arabia Saudita nel riequilibrare il lato dell’offerta nel mercato del petrolio: “Attualmente, l’Iran produce 3,7 milioni di barili al giorno (Mbd) e le sue esportazioni sono circa 1,7 Mbd. L’Arabia Saudita produce 9 Mbd e ha una capacità di produzione disponibile di 3 Mbd. Nel corso di alcuni mesi, dunque, potrebbe salire a 12 Mbd compensando largamente il deficit dell’offerta lasciato dall’Iran. Inoltre, il Regno saudita ha espresso l’intenzione di uscire dall’accordo di contingentamento della produzione petrolifera dell’OPEC per ritornare ai livelli del 2022, quando produceva 11 Mbd”.

Dove può arrivare il prezzo del petrolio?

Sebbene le attuali condizioni economiche e politiche contribuiscano a infondere fiducia sulla tenuta del mercato del petrolio, non è da escludere la possibilità di una nuova crisi petrolifera. Con Mazziero abbiamo provato a capire dove potrebbe arrivare il prezzo del barile in base alle possibili evoluzioni del conflitto.

“Il futuro andamento del prezzo del petrolio dipenderà da fattori quali lo sviluppo della crisi, la sua intensità, la rapidità della escalation e della sua durata. Per questo motivo conviene ipotizzare più scenari. Una prolungata mancanza di petrolio sui mercati internazionali potrebbe far salire gradualmente il prezzo del petrolio WTI in una fascia tra USD80 e USD90 il barile per poi tornare in qualche mese nel range tra USD70 e USD80 a seguito di un adattamento del mercato attraverso la produzione aggiuntiva da parte di altri paesi", spiega Mazziero.

"Un blocco anche momentaneo dello stretto di Hormuz da parte dell’Iran, invece, porterebbe immediatamente il prezzo tra USD100 e USD120, con punte che potrebbe anche lambire USD150. Questa condizione, comunque, difficilmente potrebbe durare per lungo tempo in quanto la flotta statunitense interverrebbe subito per rimuovere il blocco”.

Chi investe in commodity, comunque, deve tenere sotto la lente non solo i movimenti del barile, ma anche quelli che il caro energia avrebbe sul prezzo di altre materie prime. “Un aumento del petrolio produce un rialzo dell’inflazione, che a sua volta colpisce in primis i beni di maggiore consumo come gli alimentari e i prodotti agricoli. Inoltre, è probabile che altre materie prime possano essere influenzate come il rame, i metalli in genere, oltre a oro e argento", dice Mazziero.

È ora di investire negli energetici?

Per gli investitori in equity, la crescita del barile potrebbe essere l’occasione per ribilanciare il proprio portafoglio attribuendo un peso maggiore ai titoli energetici. Tuttavia, sottolinea Good, non tutte le aziende del comparto energy sono ugualmente sensibili alle variazioni del prezzo della materia prima: “Nella maggior parte dei casi, le società del segmento midstream, attive nel trasporto e nello stoccaggio del greggio, non hanno alcuna esposizione al prezzo della commodity e quindi non beneficerebbero di un rialzo del barile. Per questo motivo è preferibile prendere posizione sui titoli delle compagnie produttrici di petrolio”.

Good sottolinea nel suo report pubblicato lo scorso 16 settembre come le attuali valutazioni di mercato rispecchino lo scetticismo degli investitori relativamente alle prospettive di crescita future del settore :“Diversamente dal passato, le aziende del segmento upstream, produttrici di greggio, hanno un’allocazione del capitale più disciplinata e questo permetterà loro di continuare a macinare elevati rendimenti del capitale anche a prezzi più bassi rispetto alle attuali quotazioni del barile”.

Se è vero che l’industria promette di continuare a essere profittevole anche in futuro, al momento della scelta dei titoli da inserire in portafoglio bisogna guardare alla qualità del business e alla convenienza delle valutazioni di mercato. Per queste ragioni, secondo Good, le aziende americane, e in particolare ExxonMobil (XOM) e Chevron (CVX), sono da preferire a quelle europee. In base alle stime del prezzo medio del barile per i prossimi cinque anni, pari a USD60, le due compagnie petrolifere statunitensi sono quelle più scontate dal mercato. Ma anche in ottica difensiva, nel caso in cui il prezzo medio scendesse attorno ai USD50 al barile, continuerebbero a essere le più redditizie. 

 

Quale potrebbe essere l'impatto dell'aumento del petrolio sull'inflazione

Se è vero che il peggioramento della crisi energetica creerebbe delle opportunità di investimento nel settore energia, gli effetti sui bilanci delle famiglie europee e sulla congiuntura economica della regione potrebbero essere tutt’altro che positivi.

Pierre-Olivier Gourinchas, consigliere economico del Fondo Monetario Internazionale, ha dichiarato in una sua intervista rilasciata al The Guardian che un altro shock da materie prime nella regione è un’ipotesi da prendere in considerazione: “Un aumento del 15% del prezzo del petrolio e dei maggiori costi di spedizione, causati dall’estensione del conflitto in Medio Oriente, porterebbe ad un aumento dello 0,7% dell'inflazione, oltre a danneggiare la fiducia delle imprese e gli investimenti.

L'aumento dell'inflazione che deriverebbe dall'aumento dei prezzi dell'energia scatenerebbe una risposta da parte delle banche centrali che inasprirebbero i tassi di interesse per garantire il ritorno dell'inflazione all'obiettivo, e questo finirebbe per pesare sulla crescita economica del Vecchio continente”.

Più scettico sulla possibilità di una risalita dei tassi di interesse è Raphael Olszyna-Marzys, International Economist di J. Safra Sarasin: “Solo nel caso in cui il prezzo del petrolio raggiungesse USD120-USD130, l'inflazione nelle economie avanzate potrebbe aumentare dell'1,5% nel breve termine. Questo, però, non avrebbe l’effetto di far salire i tassi di interesse, ma solo quello di interrompere il programma di tagli dei tassi di riferimento. Non ci aspettiamo un veloce aumento del costo del denaro. Affinché le banche centrali aumentino il costo del denaro è necessario che i prezzi del petrolio rimangano elevati per qualche tempo, facendo salire le aspettative di inflazione”.

 

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Francesco Lavecchia

Francesco Lavecchia  è Research Editor di Morningstar in Italia

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