Il 15% degli italiani paga il 76% dell’IRPEF totale

Tasse: negli ultimi 15 anni redditi dichiarati saliti del 21% ma spesa per welfare del 38%. Solo l’1,5% dei contribuenti sopra i 100 mila euro.

Valerio Baselli 30/10/2024 | 14:02
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Banconote 100 euro

Sono 10 milioni – circa il 15% degli abitanti totali – gli italiani che di fatto portano sulle loro spalle il sistema sanitario e assistenziale nazionale.

Più precisamente, malgrado il miglioramento di PIL e occupazione, il 45% degli italiani non dichiara redditi o li dichiara nulli e di conseguenza vive a carico di qualcuno. Su 42 milioni di dichiaranti, poi, ce ne sono 32 milioni che complessivamente pagano il 24% dell’intera IRPEF (189 miliardi di euro nel 2023), mentre i restanti 10 milioni si fanno carico del 76% rimanente.

L’anno scorso, solo 6 milioni di italiani hanno dichiarato di guadagnare più di 35 mila euro, tra cui si contano 1,6 milioni nella fascia 55-100 mila e 650 mila persone fisiche (l’1,5% dei contribuenti) con un reddito superiore ai 100 mila euro.

Sono solo alcuni dei tantissimi dati che emergono dall’ultimo Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate fiscali a cura del centro studi Itinerari Previdenziali in collaborazione con CIDA, presentato ieri a Roma presso la Nuova Aula dei Gruppi Parlamentari.

Obiettivo principale dell’indagine, giunta alla sua undicesima edizione, è quello di verificare la sostenibilità finanziaria del welfare italiano: le entrate fiscali sono sufficienti a coprire i costi? La risposta potrebbe non piacerci.

Cresce la spesa in assistenza

Secondo lo studio, che ha usato i dati dell’Agenzia delle entrate e del Ministero dell’Economia, nel 2022 l’Italia ha complessivamente destinato alla spesa per protezione sociale – pensioni, sanità e assistenza - 559,5 miliardi di euro, vale a dire oltre la metà di quella pubblica totale (il 51,65%): valore pari circa il 30% del PIL, che colloca il nostro welfare state ai livelli di Francia e Austria, cioè ai vertici delle classifiche Eurostat.

Per avere un ordine di confronto, basti pensare che rispetto al 2012, e dunque nell’arco di un decennio, la spesa per il welfare è aumentata di ben 127,5 miliardi strutturali (+29,4%). “Un aumento ascrivibile soprattutto al capitolo ‘assistenza’ che è cresciuta del 126,3%, a fronte del solo 17% della spesa previdenziale”, ha commentato durante l’evento Alberto Brambilla, presidente del Centro studi e ricerche di Itinerari Previdenziali, nonché autore principale dell’Osservatorio.

Nel complesso, se per le pensioni si può parlare di “equilibrio”, vale a dire di un sistema pensionistico e assicurativo in grado di autosostenersi con i contributi versati da lavoratori e imprese, lo stesso non può dirsi per assistenza (circa 157 miliardi di euro), sanità (intorno ai 131 miliardi l’importo della spesa) e welfare degli enti locali (circa 13 miliardi) che, in assenza di contributi di scopo, devono appunto essere sostenuti attingendo alla fiscalità generale. Un totale di oltre 300 miliardi di euro per il quale sono occorse pressoché tutte le imposte dirette IRPEF, addizionali, IRES, IRAP e ISOST e anche 23,77 miliardi di imposte indirette, in primis l’IVA.

“Per sostenere il resto della spesa pubblica non rimangono che le residue imposte indirette, le altre entrate e soprattutto la strada del debito che, ormai prossimo ai 3.000 miliardi, continua ad aumentare nell’indifferenza generale: il tutto a discapito di altre funzioni statali indispensabili, come istruzione, infrastrutture e investimenti a sostegno dello sviluppo, oltre che di equità e sostenibilità del sistema. E, infatti, siamo fanalino di coda in Europa per produttività e occupazione”, ha proseguito Brambilla.

Italia, Paese di poveri?

Nel 2023 sono stati circa 32 milioni di italiani a pagare almeno un euro di IRPEF (imposta sul reddito delle persone fisiche), più o meno il 55% degli abitanti totali. Di questi, però, 17 milioni dichiarano di guadagnare meno di 15 mila euro l’anno.

Sommando tutte le fasce di reddito fino a 29 mila euro, l’analisi evidenzia dunque che il 75,80% dei contribuenti italiani versa soltanto il 24,43% di tutta l’IRPEF. Secondo gli autori dello studio, si tratta di “una fotografia più vicina a quella di un Paese povero che di uno Stato membro del G7 e che parrebbe oltretutto poco veritiera guardando a consumi e abitudini di spesa degli italiani”.

“Giusto aiutare chi ha bisogno, così come garantire a tutti diritti primari come quello alla salute – precisa il prof. Brambilla – ma è davvero credibile che quasi la metà degli italiani viva con circa di 10 mila euro lordi l’anno?”

Chi paga più tasse ha meno servizi

Insomma, la fotografia appare piuttosto chiara: se si continua su questa strada il sistema rischia di non essere più sostenibile e di poter venire finanziato solo da nuovo debito. Un dato positivo però c’è e riguarda la tendenza dell’occupazione, tornata a crescere, dopo la batosta del Covid.

“Se aumenta il numero di contribuenti relativamente alle fasce medie significa che abbiamo maggiori speranze di garantire sostenibilità al welfare pubblico in futuro. Tassare il ceto medio oltre a quanto già non si faccia, proprio ora che inizia a rinfoltirsi, potrebbe avere effetti recessivi sull’intera dinamica, perché In Italia vale il principio che maggiore è il contributo fiscale, minori sono i servizi di ritorno”, ha affermato Stefano Cuzzilla, presidente CIDA-Confederazione Italiana Dirigenti e Alte Professionalità.

Occorrerebbe quindi razionalizzare bonus e sussidi, estendendo però l’accesso anche ai contribuenti di fasce medio-alte, che proprio perché pagano le tasse meriterebbero quanto gli altri di beneficiare di agevolazioni, anche perché spesso questo genere di prestazioni – mense scolastiche, bonus trasporti e così via – vengono assegnate sulla base del lordo e non del netto, creando un vero e proprio paradosso per cui le fasce più basse, tra sconti fiscali e servizi ricevuti, finiscono con il superare i redditi netti di quelle subito superiori e solo apparentemente più ricche.

“Un meccanismo che rischia di incentivare i cittadini a evadere o a sotto-dichiarare, così da non rinunciare a prestazioni sociali o altre agevolazioni”, ha commentato il professor Brambilla, il quale poi ha rincarato la dose: “in altri Paese europei ed extraeuropei – ha spiegato – se a 35 anni di età non si è ancora presentata una dichiarazione dei redditi, si viene convocati e si è chiamati a spiegare di cosa si vive. in Italia non solo non succede ma a quei soggetti che nella loro vita non sono riusciti neppure ad accumulare 5 anni di versamenti contributivi, una volta raggiunti i 67 anni di età, viene concessa, senza indagine alcuna, la pensione sociale”.

Cosa fare per correre ai ripari

Detto questo, contrastare l’evasione fiscale non può essere sufficiente se non si migliorano anche produttività e mercato del lavoro di un Paese che, pur incrementando mese dopo mese il proprio tasso di occupazione, resta fanalino di coda in Europa per tutti i principali indicatori occupazionali.

“Se il contrasto di interessi tra clienti e fornitori diretti di beni e servizi potrebbe rivelarsi un ottimo modo per favorire l’emersione e al tempo stesso agevolare le finanze delle famiglie italiane, un maggiore sviluppo del welfare aziendale, insieme alla detassazione di premi, aumenti salariali e straordinari, potrebbe essere la giusta via per ridurre il cosiddetto cuneo fiscale-contributivo a carico dei lavoratori dipendenti in modo equo e sostenibile per le finanze dello Stato”, conclude lo studio.


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Valerio Baselli

Valerio Baselli  è Giornalista di Morningstar.

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