Elezioni americane: I migliori ETF azionari USA

Alla vigilia delle elezioni presidenziali, abbiamo analizzato i diversi ETF dedicati alle azioni statunitensi a grande capitalizzazione, disponibili agli investitori italiani.

Valerio Baselli 04/11/2024 | 11:06
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Outside the NYSE

L’attenzione degli investitori è tutta rivolta agli Stati Uniti. Nella giornata di domani, infatti, i cittadini americani saranno chiamati a scegliere chi sarà il prossimo presidente USA, se Donald Trump o Kamala Harris. Una scelta le cui conseguenze valicheranno i confini nazionali e che potrebbe avere ripercussioni importanti su vari settori del mercato azionario americano. Con l’occasione, analizziamo il profilo degli ETF azionari USA large cap blend che ottengono un Morningstar Medalist Rating pari a Gold.

Nei primi dieci mesi del 2024, l’equity statunitense ha continuato a correre, anche contro le previsioni, trainata soprattutto dal comparto tecnologico. La settimana scorsa, infatti, il Nasdaq ha messo a segno il nuovo record di tutti i tempi a 18.712 punti. Nel complesso, il mercato Usa ha guadagnato il 24% da inizio anno, contro il 9% delle Borse europee (dati in euro, al 30 ottobre 2024).

Interessante poi notare come il rally di mercato non riguardi più una manciata di titoli Big Tech esposti al settore dell’intelligenza artificiale. Nel terzo trimestre dell’anno, infatti, più del 60% dei titoli dello S&P 500 ha sovraperformato l’indice, mentre nel primo semestre solo il 24% di essi ci era riuscito. Insomma, un numero maggiore di aziende sta partecipando alla festa.

A riprova dell’euforia generale, come evidenziato dai dati della Fed, il 62% delle famiglie americane possiede oggi titoli azionari e quasi il 42% dei loro investimenti totali è in azioni domestiche, dei livelli storicamente altissimi.

L’ottimismo degli investitori sembra supportato dalla convinzione che il taglio dei tassi da parte della Federal Reserve stimolerà la crescita, il che sta spingendo più capitali verso le azioni di banche regionali, società industriali e altri beneficiari di un’economia forte e di tassi più bassi.

La grande rotazione? Da large a small, da growth a value

Questo ha contribuito a innescare la recente rotazione dai titoli tecnologici a quelli value e a piccola capitalizzazione. Dopo due anni di guadagni da capogiro, i titoli large growth hanno reso solo il 2,2% nel terzo trimestre, mentre i titoli large value hanno guadagnato l'8,8%.

Anche Dave Sekera, chief US strategist di Morningstar, ha dichiarato nel suo consueto appuntamento di analisi e outlook trimestrale, che si aspetta da qui in avanti una sovraperformance delle small cap e dei titoli di tipo value. In generale, comunque, il sostegno alle azioni continuerà: “Valutando le dinamiche di mercato, riteniamo che il supporto derivante dal calo dei tassi di interesse, dalla moderazione dell’inflazione, dall’allentamento della politica monetaria e dalla recente ondata di misure di stimolo annunciate dal governo cinese più che compenserà i timori legati al rallentamento della crescita economica”, ha affermato Sekera.

“Prevediamo che da qui alla fine dell’anno i tassi USA scenderanno di altri 50 punti base e ci aspettiamo un ulteriore allentamento di 100 punti base nel 2025. Storicamente, i tagli dei tassi della Fed in periodi non recessivi sono stati favorevoli alle azioni”, scrive poi Mark Haefele, chief investment officer di UBS Global Wealth Management, in una nota del 30 ottobre. “Gli utili del settore tecnologico dovrebbero continuare a sostenere la crescita dell’IA. Continuiamo quindi a vedere una prospettiva fondamentale positiva e favorevole per gli asset di rischio e prevediamo che l’S&P 500 salirà fino a raggiungere i 6.600 punti entro la fine del 2025”, afferma Haefele.

L’offerta ETF per gli investitori italiani

Gli investitori italiani possono scegliere tra 124 exchange-traded fund dedicati ai titoli azionari large cap blend statunitensi, 14 dei quali ottengono un Morningstar Medalist Rating pari a Gold e altri 30 pari a Silver.

Tra questi, a spiccare per asset in gestione ci sono i replicanti dello S&P 500 emessi da iShares e Vanguard. Queste due strategie sono di gran lunga quelle più importanti in termini di masse di tutta la categoria, inclusi i fondi gestiti attivamente.

Lo S&P 500 è un indice ponderato per la capitalizzazione di mercato aggiustata per il flottante, che racchiude le 500 azioni statunitensi a maggiore capitalizzazione che rispettano alcuni parametri di liquidità e profittabilità. Nato nel 1957 è considerato il benchmark più rappresentativo della Borsa Usa. A livello settoriale, il portafoglio è dedicato principalmente al comparto tecnologico (32,4%), a quello finanziario (12,6%), ai titoli della salute (12,2%), ai beni di consumo discrezionali (10,2%), al settore delle comunicazioni (8,7%) e agli industriali (7,5%).

“Lo S&P 500 manterrà sempre un orientamento verso le grandi capitalizzazioni rispetto alla media dei fondi della categoria”, spiega Monika Calay, responsabile ricerca sulle strategie passive di Morningstar. “Le prime 10 partecipazioni rappresentano il 31% del portafoglio e su un orizzonte temporale più breve, l’entusiasmo degli investitori per un particolare titolo o settore può rendere l’indice più pesante, in quanto si orienta verso i vincitori recenti”.

A Wall Street, ETF is King

Tra gli alti e bassi del mercato, rimane una certezza: la solida preferenza degli investitori per la gestione passiva quando si tratta di investire nell’equity Usa. Analizzando la categoria dei fondi azionari Usa large cap blend (la più importante nel panorama azionario a stelle e strisce), vediamo che il gruppo è ormai territorio dei prodotti indicizzati, con quasi l’80% degli asset gestiti passivamente a livello globale (7.500 miliardi di dollari sui 9.500 miliardi totali).

Nella sola Europa, negli ultimi 5 anni gli investitori in fondi aperti (ETF inclusi) hanno versato 131 miliardi di euro in strategie passive azionarie USA large-cap blend, contro gli appena 25 miliardi raccolti dagli strumenti attivi nello stesso periodo.

Storicamente, infatti, i grandi indici dedicati al mercato azionario statunitense (in particolare l’MSCI USA e lo S&P 500) si sono rivelati decisamente complicati da battere per i gestori di fondi attivi. Molti attribuiscono queste difficoltà all’altissimo livello di efficienza del mercato azionario americano. Con il termine “efficienza” in questo caso si indica la velocità e la precisione con cui i partecipanti al mercato incorporano nuove informazioni (notizie economiche, dati contabili, ecc.) nei prezzi delle azioni. Inoltre, dati i progressi tecnologici e la crescita della porzione di attività gestite da investitori qualificati, il mercato è diventato sempre più efficiente e liquido nel tempo. Tuttavia, questo aspetto non può spiegare da solo il successo a lungo termine dei fondi indicizzati, almeno di quelli ampiamente diversificati e ponderati per la capitalizzazione di mercato.

Un altro vantaggio non da poco dei replicanti, infatti, è rappresentato dai costi. Per le case d’investimento, i fondi passivi sono intrinsecamente meno costosi rispetto a quelli attivi: i fornitori di index funds non devono pagare un team di gestori e analisti altamente qualificati, oltre ad avere un turnover di portafoglio decisamente inferiore, il che evita tutta una serie di costi accessori (commissioni varie, spread bid-ask).

Detto questo, gli indici ponderati in base alla capitalizzazione di mercato (come appunto l’MSCI USA o lo S&P 500) presentano alcuni inconvenienti degni di nota. Possedendo “il mercato”, gli investitori si affidano ad altri partecipanti per valutare i titoli azionari. Se si considerano lunghi periodi di tempo, questi partecipanti hanno tutto sommato svolto un buon lavoro di valutazione, ma questi lunghi orizzonti sono stati anche contrassegnati da episodi di panico.

I benchmark tradizionali sono infatti soggetti a bolle, in quanto naturalmente sovrappesano le azioni che sono aumentate nel loro valore e sottopesano quelle che invece hanno perso terreno. Ad esempio, durante il boom dei titoli dotcom alla fine degli anni ‘90, l’indice MSCI USA era in gran parte esposto a titoli tecnologici, dei media e delle telecomunicazioni, che alla fine crollarono. Quando scoppiò la bolla, il benchmark scese di oltre il 40% e ci sono voluti quattro anni per tornare al valore antecedente al crash.


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Info autore

Valerio Baselli

Valerio Baselli  è Giornalista di Morningstar.

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