L’INPS traballa. Non una grossa novità forse, ma nei giorni in cui il governo Meloni sta cercando la quadra sulla prossima Legge di Bilancio, è ancora più importante accendere i riflettori sulla sostenibilità del sistema pensionistico italiano.
Nonostante a oggi l’equilibrio della previdenza pubblica sembri ancora reggere, il pericolo concreto è che la tenuta economico-finanziaria sia a rischio nel medio periodo e a questo va aggiunto che la previdenza integrativa è ancora troppo poco diffusa. A ribadirlo è il recente Osservatorio Pensioni 2024 pubblicato dalla società di consulenza finanziaria Moneyfarm.
I neopensionati superano i neonati
La Ragioneria dello Stato ci dice che attualmente il rapporto tra spesa pensionistica e PIL – uno degli indici con cui si misura la sostenibilità del welfare pubblico – è pari al 15,6%, percentuale che si stima salirà al 17% nell’arco di soli 15 anni (la media europea è del 13%). Colpa della crisi demografica, con il numero di nuove pensioni liquidate nel corso del 2023 che supera di gran lunga quello delle nuove nascite, arrivate a segnare un altro record negativo: 379.339 neonati nell’anno, contro 519.879 neopensionati.
In Italia, dunque, si fanno meno figli, si inizia a lavorare più tardi in un mondo del lavoro più precario e si vive sempre più a lungo: una combinazione di fattori che minaccia il patto intergenerazionale su cui si fonda l’intero sistema previdenziale pubblico. Mai come in questo momento si dovrebbe far strada tra i lavoratori la consapevolezza dell’importanza di aderire ad una qualche forma di previdenza complementare ma, secondo le stime di Moneyfarm, attualmente solo un cittadino su quattro di età compresa tra i 30 e i 59 anni sta investendo in previdenza integrativa.
Solo il 26% degli occupati ha un fondo pensione (e non tutti versano)
Secondo l’analisi, degli oltre 24,2 milioni di cittadini nati tra il 1965 e il 1994, pari al 41% della popolazione italiana, quelli che hanno un fondo pensione sono solamente il 26%, mentre il restante 74% è occupato senza un fondo pensione oppure inoccupato. Di questo 26%, una parte potrebbe peraltro essere contribuente “silente”, cioè che non effettua versamenti (quasi il 28% degli iscritti, secondo la relazione annuale COVIP per il 2023). Anche l’uso del TFR per alimentare la previdenza integrativa è limitato: dal 2007 al 2023, solamente il 22% di tutto il TFR maturato è stato destinato ai fondi pensione. Il resto è rimasto nelle aziende o nel Fondo di Tesoreria dell’INPS, che raccoglie il TFR delle aziende con più di 50 dipendenti.
Il tasso più elevato di adesione alla previdenza integrativa si riscontra tra gli uomini di età compresa tra i 40 e i 59 anni, circa un terzo dei quali ha sottoscritto un fondo pensione (33,5% vs 21% delle coetanee donne). All’opposto, la situazione più critica è quella delle giovani donne tra i 30 e i 39 anni: qui il tasso di adesione alla previdenza integrativa crolla al 17%, contro il 27% dei coetanei uomini. Il motivo è da ricondurre non soltanto al fatto che le giovani lavoratrici aderiscano meno degli uomini ai fondi pensione (27% vs 33%), ma soprattutto al fatto che vi siano ben 17 punti di tasso di occupazione a separarle dai loro coetanei uomini. Nel complesso, infatti, le donne tra i 30 e i 59 anni hanno un tasso di occupazione medio del 63% circa, contro l’83% degli uomini, un divario che non può non riflettersi anche sulla pensione integrativa.
Il gender gap previdenziale
Quello della previdenza al femminile è un problema reale, soprattutto se si considera che, a partire dai 50 anni, il tasso di occupazione continua a calare al crescere dell’età, arrivando a sfiorare il 48% per le donne tra i 55 e i 64 anni (contro il 69% dei loro coetanei uomini). Spesso, dunque, pur potendo beneficiare del requisito di pensione anticipata inferiore di un anno (41 anni e 10 mesi vs 42 anni e 10 mesi per gli uomini), le donne non hanno la continuità lavorativa necessaria per accedere alla pensione per anzianità contributiva. Se poi si considera che l’età media di pensionamento – oggi pari a 64,2 anni – è destinata a salire ulteriormente in futuro, per via dell’aggiornamento dei requisiti pensionistici per l’aumento dell’attesa di vita, la situazione appare ancora più critica per le lavoratrici che si sono da poco affacciate al mondo del lavoro.
“Una ragione più che valida per unirsi agli oltre 6 milioni di lavoratori tra i 30 e i 59 anni che hanno già sottoscritto una qualche forma di previdenza integrativa versando”, si legge nello studio di Moneyfarm, le cui stime parlano di “una media di 2.004 euro annui, con valori compresi tra i 1.700 euro delle trentenni e i 2.700 euro dei cinquantenni”.
Considerando tale versamento medio fino all’età di 67 anni e un maturato medio stimabile in 20.250 euro, la rendita integrativa netta stimata che ci si può attendere da un fondo pensione bilanciato è di circa 295 euro al mese, con valori compresi tra i 231 euro delle cinquantenni e i 350 euro dei trentenni, fermo restando che la tempestività con cui si comincia a creare la propria pensione di scorta rappresenta una variabile chiave.
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