Dilemma TFR, perché destinarlo a un fondo pensione?

Secondo un recente sondaggio, solo un terzo dei lavoratori italiani conferisce il TFR alla previdenza complementare.

Valerio Baselli 24/01/2025 | 07:55
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Illustration d'une tirelire avec des billets et des pièces flottant dans la fente.

La previdenza complementare è tornata al centro della scena, dopo che la Legge di Bilancio 2025 ha introdotto per la prima volta la possibilità di un accesso agevolato alla pensione anticipata che faccia valere le rendite della previdenza integrativa ai fini del raggiungimento della soglia minima dell’assegno di pensione (per il momento solo per chi ha iniziato a versare contributi dal primo gennaio 1996).

Una misura, questa, che ha anche l’obiettivo di incrementare il numero di adesioni ai fondi pensione e affini e di stimolare il conferimento del TFR e i versamenti volontari dei lavoratori.

Infatti, in un momento storico in cui – complici l’invecchiamento demografico e la precarietà lavorativa – la tenuta del sistema pensionistico pubblico è a rischio e la previdenza integrativa non è ancora riuscita a conquistare pienamente la fiducia dei lavoratori italiani, il TFR potrebbe rappresentare un alleato prezioso per i futuri pensionati. Ad oggi, il Trattamento di Fine Rapporto – quella componente della retribuzione dei lavoratori dipendenti che viene erogata al momento della cessazione del rapporto di lavoro – può essere accantonato in azienda oppure destinato a un fondo pensione, e quindi investito sui mercati, a discrezione del singolo lavoratore.

Il 78% del TFR accumulato resta alle aziende

Il problema è che la stragrande maggioranza dei lavoratori sceglie la prima opzione. L’ultimo sondaggio effettuato dalla società di consulenza Moneyfarm mostra come, nonostante l’85% dei risparmiatori intervistati consideri economicamente vantaggioso investire il TFR in una forma di previdenza integrativa, soltanto un terzo del campione è effettivamente passato dalla teoria alla pratica e ha scelto di conferire il TFR a un fondo pensione. Un dato che trova riscontro a livello nazionale: dal 2007 al 2023 soltanto il 22% del totale del TFR accumulato nelle aziende, pari a circa 97 miliardi, è stato conferito a una forma di previdenza integrativa.

Il resto è rimasto in azienda: circa 98 miliardi sono stati destinati al Fondo di Tesoreria dell’INPS (per le aziende con più di 50 dipendenti), mentre 242 miliardi si trovano nei bilanci o nel circolante delle imprese con meno di 50 dipendenti. “Un vero e proprio tesoretto che i lavoratori potrebbero, previo assenso del proprio datore di lavoro, investire per andare a integrare l’assegno pensionistico pubblico”, scrivono gli analisti di Moneyfarm.

Una questione di educazione finanziaria

Alla base della scelta di tenere il TFR in azienda, il campione intervistato da Moneyfarm crede vi sia soprattutto un problema di disinformazione: secondo il 39% dei rispondenti molti lavoratori dipendenti semplicemente non sanno di poter conferire il TFR a un Fondo Negoziale di Categoria, a un Fondo Aperto o ad un PIP. Un altro tema è quello della flessibilità, con quasi un quarto degli intervistati che vede il TFR in azienda come più liquido e flessibile.

“Penso che la preoccupazione principale dipenda da una scarsa educazione finanziaria e, in particolare, scarsa conoscenza del sistema dei fondi pensione da cui deriva il timore di far confluire il TFR in un prodotto poco sicuro che investe sui mercati finanziari, con il rischio di perdere parte dei propri risparmi, rispetto alla possibilità di lasciarlo in azienda, percepita come più sicura”, afferma Michaela Camilleri, responsabile Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, intervistata da Morningstar.

Secondo Camilleri, “sarebbe bene informare circa il fatto che, da un lato, esiste un’apposita Autorità di vigilanza (la Covip, Ndr) e, dall’altro, che con un orizzonte temporale lungo come quello previdenziale si ha la possibilità di recuperare eventuali perdite registrate in anni in cui l’andamento dei mercati è particolarmente negativo. Credo ci sia poi il timore di non poter disporre del TFR fino al momento del pensionamento. In realtà, non è così perché possono essere richieste anticipazioni, peraltro con una tassazione inferiore rispetto a quella applicata al momento della liquidazione da parte dell’azienda”.

TFR, meglio in azienda o in un fondo pensione?

Se lasciato in azienda, il TFR viene rivalutato in misura prestabilita al tasso fisso dell’1,5%, cui aggiungere la componente variabile pari al 75% del tasso di inflazione rilevato da Istat. Aderendo alla previdenza complementare, invece, il TFR conferito che andrà ad alimentare il montante finale viene investito sui mercati finanziari. Si tenga conto che, a settembre 2024 (ultimo dato Covip), il rendimento netto medio annuo degli ultimi 10 anni e 9 mesi è stato pari al 2,7% per i fondi negoziali, al 2,9% per i fondi aperti, al 3,2% per i PIP di ramo III, con le linee azionarie pure che hanno guadagnato in media il 5%; nello stesso periodo, la rivalutazione del TFR è risultata pari al 2,3% annuo. “Dunque, già a dieci anni i fondi pensione mostrano risultati più elevati rispetto al TFR”, commenta Camilleri.

Inoltre, secondo le elaborazioni di Smileconomy riportate da Moneyfarm nel proprio studio, al netto di costi e fiscalità, anche in uno scenario di elevata inflazione media (3%), lasciare il TFR in azienda ha un costo per gli anni della pensione, con differenze che per i più giovani possono arrivare all’83% di ricchezza in meno.

Ad esempio, un quarantenne dipendente, con un reddito di 2.000 euro netti, potrebbe attendersi 57.838 euro dal TFR lasciato in azienda, mentre, conferendolo a una forma di previdenza integrativa, potrebbe ricevere tra i 60.525 euro con una linea a basso rischio (obbligazionaria) e i 92.982 euro con una linea ad alto rischio (azionaria), un delta di ben 35.144 euro.

Sotto l’aspetto fiscale c’è infatti da considerare anche la differenza di tassazione al momento dell’erogazione del TFR: se è stato lasciato in azienda, al momento della sua liquidazione, sarà soggetto a tassazione separata su cui verrà applicata l’aliquota IRPEF media dei cinque anni antecedenti la cessazione dell’attività lavorativa (tra il 23% e il 43%); nel caso di versamento al fondo pensione invece, la prestazione pensionistica che verrà erogata sconterà una tassazione agevolata che dal 15% si riduce dello 0,3% per ogni anno di iscrizione alla previdenza complementare successivo al 15° fino a un minimo del 9%.


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Valerio Baselli

Valerio Baselli  è Giornalista di Morningstar.

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