Sono pochi i fondi che scelgono in modo quasi esclusivo l’energia rinnovabile e quei pochi hanno reso veramente poco negli ultimi mesi. Perché?
Si tratta di un’area di nicchia, che ha bisogno di un team dedicato per la scelta degli investimenti che solo poche società si possono permettere. I fondi, poi, sono andati male quanto a performance poiché il settore dell’energia alternativa è giovane ed è fatto di società tipicamente piccole, con una storia di gestione recente e che utilizzano per lo più nuove tecnologie. In un momento come l’attuale, in cui gli investitori abbandonano a gambe levate titoli growth per più sicuri titoli value, naturalmente questo segmento del settore energetico ne risente di più.
Ma cosa può offrire un fondo del genere rispetto a uno tradizionale che investe sul settore energetico?
Secondo la Shell, il settore dell’energia rinnovabile sta registrando la crescita più consistente nell’ambito del mercato dell’energia e offrirà tassi di crescita a due cifre fino a fine decennio, se non oltre. Per gli investitori tutto ciò si tradurrà in rendimenti di lungo periodo positivi e per questo abbiamo creato un prodotto dedicato.
Il summit di Johannesburg ha avuto un qualche effetto sul settore o potrebbe averlo in futuro?
L’impatto, almeno nel breve, è stato molto limitato, per non dir nullo. Più che la retorica contano gli accordi legislativi e quelli commerciali e il summit non ne ha prodotti.
Quali sono i trend futuri del settore energetico?
Un maggiore uso del gas naturale e di benzine pulite. E ancora la crescita dell’uso di energie alternative come il vento o l’energia solare.
Lei ha scelto di mantenere il fondo molto concentrato sui primi dieci titoli. Perché?
Tutti i nostri fondi dedicati hanno un portafoglio molto concentrato. Solitamente tra le 30 e le 45 società rappresentano il 50-60% del portafoglio. Questo consente al team di seguire da vicino ogni società e di visitarne regolarmente il management.
Lei gestisce anche un fondo energetico tradizionale.
Ha perso molto meno, poiché investe in società grandi, mature e ben posizionate nel settore, che stanno generando significativi cash flow, la maggior parte dei quali viene ridistribuito agli investitori sotto forma di dividendi.
Se alla fine la Guerra in Iraq ci fosse, cosa significherebbe per il suo fondo?
Il timore della guerra sta tenendo alto il prezzo del petrolio, in modo artificiale. Sfortunatamente, le valutazioni dei titoli energetici scontano un prezzo del petrolio sotto i 20 dollari al barile, molto inferiore ai prezzi correnti.
Eni rappresenta uno dei principali holding del suo fondo. Perché?
Ha un business ben diversificato, buoni dividendi e un buon cash flow che consente sia di pagare i dividendi sia eventualmente di acquisire asset o competitor. Eni vanta un potenziale tasso di crescita della produzione di oltre il 5%, sopra la media, ma la sua valutazione in Borsa è in linea con quella dei concorrenti e suggerisce quindi un possibile rialzo del corso. Aspettiamo solo che lo Stato ne esca dal capitale sociale.
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