Negli ultimi sei mesi, il rapporto di cambio con il biglietto verde è diventata una delle principali preoccupazioni in Giappone. Da agosto, lo yen ha guadagnato più del 10%, superando la resistenza di quota 105. Dopo gli interventi di gennaio e febbraio, il cambio è sceso intorno a 112 yen per un dollaro, nella prima settimana di marzo. Tuttavia, la soglia psicologica sono 100 yen e se il biglietto verde calerà al di sotto, molti temono una forte reazione della Borsa, che potrebbe ancora un
a volta ferire i bilanci del già traballante sistema bancario.
La Cina dietro la crescita dell’export
Le imprese di esportazione hanno registrato una forte crescita dei profitti. Il principale partner è la Cina, la cui domanda è salita del 40% a dicembre rispetto allo stesso mese del 2002. Secondo Andy Xie, capo-economisti di Morgan Stanley per la Cina, l’aumento dell’export nipponico dal 2000, in tutto 25 miliardi di dollari, è dovuto alla Cina.
Per gli investitori, l’aspetto economico più interessante è che i due Paesi sono complementari. La Cina ha abbondanza di manodopera a basso costo, mentre il Giappone ha un surplus di attrezzature produttive, dopo anni di eccessi di spesa in conto capitale. Inoltre, Tokyo ha fatto ingenti investimenti diretti in Cina e spostato parte della produzione. Questo fa sì che si può guadagnare di più dalla crescita del gigante asiatico, puntando sul Paese nipponico.
Oltre all’export e agli interventi governativi per tenere basso lo yen, il Giappone continua a beneficiare di tassi di interesse ai minimi, che favoriscono consumi e investimenti. Le statistiche mostrano che la fiducia è in aumento, supportata dalla crescita economica e dal basso livello di disoccupazione.
Meno investimenti, più crescita
Secondo l’economista inglese, Andrew Smithers, è necessario più di un anno con elevata crescita del Pil, in quanto fino a che ci sarà sovra-capacità produttiva, le pressioni deflazionistiche continueranno. Solo un consistente calo degli investimenti può far crescere i profitti. Inoltre, il deficit pubblico è di circa il 7% e gli squilibri economici appaiono di difficile soluzione.
Nel lungo periodo, i rischi sono ancora elevati e comprendono il rapido invecchiamento della popolazione e la dipendenza dalle esportazioni. Le riforme economiche sono necessarie, in particolare nel sistema creditizio, nel mercato del lavoro e nei settori “protetti”. Migliori condizioni economiche hanno dato più libertà di azione ai riformatori che hanno vinto le elezioni l’anno scorso, ma bisogna vedere quante delle promesse elettorali verranno mantenute.
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