Gli investitori non fanno molta strada sui mercati finanziari. Al contrario, preferiscono giocare in casa. In un confronto America-Italia, chi investe nell’azionario preferisce acquistare società quotate sul listino domestico, perché meglio conosciute, alle quali è più facile accedere e perché mettono al sicuro da rischi legati alle fluttuazioni dei tassi di cambio.
È questo un fenomeno chiamato “Home bias”, ovvero squilibrio a favore del mercato nazionale che, naturale e giustificato entro certi limiti, in realtà la fa da padrone nella scelta degli investimenti, facendo passare in secondo piano le più elementari nozioni economiche relative alla frammentazione dei rischi.
Che fine ha fatto la diversificazione
In realtà, i vantaggi della diversificazione su base internazionale stanno diminuendo. La colpa è soprattutto della globalizzazione: secondo alcuni studi americani, oltre il 40% dei profitti delle società a stelle e strisce comprese nell’S&P 500, non provengono dagli Usa, ma da mercati esteri.
Il mondo è sempre più integrato; l’outsourcing e la competizione internazionale influenzano i prodotti a tal punto che è diventato più difficile conoscere il reale paese di origine di un prodotto, perché ad esempio esso è frutto di un progetto che è iniziato in Germania, per poi essere assemblato in Messico, magari su componenti cinesi.
Questo significa che la domanda di un bene influenza i livelli di occupazione - e quindi l’economia - dei diversi paesi che partecipano alla produzione e aumenta il grado di correlazione tra i rispettivi mercati finanziari.
Michele Gambera, Chief Economist di Ibbotson, società di consulenza del gruppo Morningstar, spiega che, secondo la teoria economica l’investitore medio dovrebbe dividere la sua disponibilità tra asset privi di rischio e azioni. In altre parole, egli dovrebbe scegliere un prodotto con un’asset allocation equilibrata e verificare che la quota destinata alle azioni sia rappresentativa di tutto l’universo investibile, vale a dire l’Msci World, dove ciascun titolo è pesato per la sua capitalizzazione di mercato.
Anche se la correlazione tra i mercati internazionali è alta, non è mai il 100%. Pertanto c’è ancora spazio per la diversificazione geografica che, nel frattempo, è diventata meno costosa. La disintermediazione facilita l’accesso ai diversi prodotti con i quali costruire il proprio portafoglio, e sono sempre più diffusi strumenti a basso costo come gli Etf.
Le correlazioni tra i diversi mercati, inoltre, non sono misure lineari, ma possono essere asimmetriche, e quindi le diverse aree possono essere correlate in fasi di forti volatilità o, al contrario, in condizioni di mercato normali e presentare una decorrelazione in altri periodi.
Questa è un’ipotesi importante perchè dimostra che la diversificazione può costituire uno scudo efficiente contro eventi di mercato estremamente negativi. In altre parole, investire solo nelle società di casa significa non solo perdere delle opportunità di rendimento, ma anche di contenimento del rischio.
In base al peso relativo delle diverse aree geografiche sull’indice mondiale, quindi, un investitore americano dovrebbe portare al 55% la quota di asset investita nei mercati esteri, al di fuori degli States (vedi grafico 1), contro un’allocazione che, nella realtà, arriva al 70%.
Clicca qui per vedere il Grafico 1
Secondo Gambera si tratta di un ribilanciamento difficilmente realizzabile, per via del marcato Usa-centrismo che caratterizza gli investitori americani. L’elemento certo è che il 30% tradizionalmente investito nel resto del mondo è una quota troppo esigua, soprattutto alla luce del riequilibrio in atto a livello economico tra America e Asia.
Cosa succede in Italia
Che gli Stati Uniti siano Usa-centrici non è una novità, ma i risultati sono ancora più interessanti per un’industria di dimensioni contenute come quella italiana.
Anche in questo caso, abbiamo preso in considerazione i fondi bilanciati, questa volta di diritto italiano e disponibili sul mercato domestico. Ebbene, qui l’home bias è ancora più evidente, perché il mercato italiano ed europeo insieme pesano oltre il 60% nei portafogli, contro una capitalizzazione degli stessi nell’indice Msci AC World che non arriva al 30%.
Clicca qui per vedere il grafico dell'allocazione dei fondi italiani
Di conseguenza, tutte le altre aree geografiche sono in netta sottoponderazione. Non solo l’America, il cui peso è praticamente dimezzato rispetto alla sua presenza nell’indice mondiale, ma poco spazio in portafoglio è lasciato a Giappone e Paesi emergenti che, in termini di correlazione, potrebbero aggiungere maggiori elementi di diversificazione al portafoglio, perché presentano la più bassa correlazione con il mercato italiano.
L'articolo è stato pubblicato su TuttoFondi Morningstar del quarto trimestre 2007
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