La Microfinanza, spiega l’Economist, è una “parola rivolta alle masse il cui vocabolario è però comprensibile solo dagli investitori istituzionali”: tuttavia, ad oggi rappresenta
una nuova realtà, un’asset class alternativa che offre nuove opportunità di investimento che vanno oltre quelle tradizionalmente conosciute e fornite dai Paesi emergenti.
Tuttavia, sono almeno tre anni che la comunità finanziaria guarda con interesse alla microfinanza, a giudicare dai flussi di liquidità che i paesi sviluppati - attraverso gli strumenti di investimento denominati Mivs (Microfinance Investment Vehicles), in prevalenza fondi comuni o trust - hanno dirottato nelle casse delle numerose istituzioni che, come la Grameen Bank di Yunus, offrono microcredito in ogni continente della Terra.
Secondo un’analisi condotta da MicroRate , società specializzata nella valutazione delle società che concedono i prestiti, gli investimenti effettuati dagli operatori privati attraverso i Mivs stanno crescendo a tassi elevatissimi: in due anni sono raddoppiati e hanno superato gli investimenti effettuati dalle istituzioni pubbliche dei paesi sviluppati come la World Bank, diventando la prima fonte estera di finanziamento per le istituzioni che offrono servizi di microcredito.
In sostanza, gli investitori istituzionali hanno fiutato un affare di diversi miliardi di dollari, con tassi di crescita -e quindi di ritorno- a due cifre. Attraverso la costituzione di un fondo, di un trust o una fondazione, entrano nel capitale dell’istituzione che eroga i microprestiti, oppure ne acquistano i debiti emessi sotto forma di CDOs o altre cartolarizzazioni.
La similitudine con i mutui subprime finisce qui: è vero che anche qui le garanzie sono poche o nulle, ma il prestito è finalizzato allo sviluppo di un’attività produttiva e il tasso di restituzione, secondo la Grameen Bank, è vicino al 98%. In altre parole, solo il 2% di chi contrae il debito, non riesce poi a ripagarlo.
Circa un paio di settimane fa, la banca di Yunus è entrata anche negli Sates e ha concesso i primi microprestiti, per un totale di circa 50mila dollari, a un gruppo di donne immigrate a New York con l’obiettivo di continuare ad aiutare milioni di persone che in Usa che non hanno un conto corrente.
Subito dopo, a Parigi, Yunus ha firmato un accordo per 50milioni di euro con il Crédit agricole dando vita alla prima fondazione creata dalla sua banca con un istituto di credito internazionale, che fornirà aiuti alle istituzioni di microfinanza nel campo dei servizi finanziari e assistenza da parte del team Credit Agricole.
L’euforia sta coinvolgendo anche gli imprenditori italiani. Negli ultimi giorni è partita la campagna “Africa works” condotta dal gruppo Benetton, impegnato in Senegal a sostegno dello sviluppo e della piccola imprenditorialità locale, in prevalenza fatta da agricoltori, pescatori e artigiani. Insomma, la microfinanza è in fermento e si sta allargando a macchia d’olio e, come spiegato da Yunus, “ora il momento è buono perché la crisi dei mutui subprime ha mostrato che il sistema finanziario non è perfetto”.
Le sfide e i rischi
Ma i rischi ci sono e non sono pochi. Già dieci anni fa Microrate ha iniziato a censire le istituzioni di Microfinanza operanti nel mondo, ponendo l’accento sulla necessità di misurarne le performance e il livello di rischio e dando vita a una sistema di rating e di analisi che oggi arriva a coprire il 70% dell’intero universo.
La sfida è importante: senza l’accesso a informazioni chiare e oggettive da parte degli investitori è difficile che la Microfinanza continui a registrare dei tassi di crescita così elevati, ad aprirsi al mercato dei capitali e dei piccoli investitori senza andare a incontro a pericolosi crac, che potrebbero minarne la fiducia e l’ulteriore sviluppo. Senza dimenticare che, dopo lo scotto dei subprime, gli investitori chiedono maggiore trasparenza e la possibilità di mettere a nudo l'effettiva composizione rischiosità di un investimento.
Una sfida aperta anche per Morningstar.
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