Quella di Siegel è un’affermazione forte, considerata l’elevata incertezza che domina sui mercati. Il prezzo del greggio è in calo, ma crescono i timori per il rallentamento della crescita economica globale. Inoltre, il settore bancario continua ad essere in sofferenza e il numero di istituti in condizioni “critich
e” è aumentato. Secondo la Federal deposit insurance corporation americana, è passato da 90 a 117 tra aprile e giugno.
A sostegno della sua ipotesi, Siegel spiega che le forti svalutazioni realizzate dalle banche hanno determinato un gap nelle valutazioni, ma se ci si concentra sui profitti operativi (quelli derivanti dall’attività core delle aziende), il rapporto tra prezzo e utili (price/earning) è molto più basso rispetto alle passate crisi. Il suo è un approccio fondamentale, focalizzato sugli indicatori patrimoniali e reddituali delle società. Ma l’attuale fase di mercato non può essere compresa considerando solo questo aspetto. Come scrive Maurizio Novelli, global strategist di Zest asset management, nella sua lettera mensile, l’andamento di alcuni settori come le materie prime, l’energia e i materiali di base è stato determinato in larga parte da fattori economici, mentre i finanziari hanno beneficiato delle ricoperture legate all’attenuarsi delle pressioni speculative al ribasso.
In un contesto che non rimane facile da interpretare, i gestori si stanno muovendo in ordine sparso nella strutturazione del portafoglio. Secondo un’indagine di Morningstar tra i migliori fund manager americani, alcuni non credono nella fine del rally del settore energetico e continuano a mantenere le loro posizioni; altri, invece, preferiscono sottopesare le compagnie petrolifere o non averle in portafoglio, nella convinzione che l’euforia che ha spinto il comparto non abbia solidi fondamenti. Esistono anche gestori che cominciano a guardare ad altre industrie che non sono sotto i riflettori in questo momento, come quella farmaceutica, le cui valutazioni, a loro dire, sono scese troppo.
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