Il varo della Ucits IV coincide con una fase molto delicata per l’industria, colpita da una crisi che non ha risparmiato nessun Paese, seppur in
modo diverso. Secondo le statistiche dell’Efama, l’associazione che riunisce le società di gestione del Vecchio continente, nei primi nove mesi sono usciti dal sistema 193 miliardi di euro e il patrimonio è sceso del 13,5%, per effetto, oltre che dei riscatti, del calo delle Borse e del terremoto sul mercato creditizio dopo il fallimento di Lehman Brothers. Insieme all’Italia, il Paese più colpito dalle fuoriuscite è stata la Spagna, mentre il calo è stato contenuto nel Regno Unito e in Lussemburgo.
La direttiva indica precisi requisiti per le sgr, in modo che ci sia un quadro normativo condiviso a livello di tutela per i sottoscrittori (ad esempio il capitale iniziale deve essere di almeno 125 mila euro, l’identità degli azionisti deve essere nota, ecc.). Un nodo delicato è rappresentato dalla vigilanza, che spetta principalmente all’authority dello Stato di origine della società di gestione, ma che per taluni aspetti coinvolge anche il Paese ospitante. Dal canto loro, i membri dell’Ue dovranno provvedere affinché le sgr autorizzate possano operare sia costituendo una succursale sia “in regime di libera prestazione di servizi” (ossia senza una sede fisica).
Tutti questi provvedimenti mirano a rendere più flessibile ed efficiente il mercato. Ad essi se ne aggiungono altri che si adattano bene ai processi di razionalizzazione e ristrutturazione in atto da qualche mese. In particolare, la Ucits IV prevede un’armonizzazione della procedure di fusione tra i fondi a livello transfrontaliero e la possibilità di introdurre strutture master-feeder per aprire nuove opportunità di business per i gestori (in pratica il meccanismo consiste nel fatto che un fondo “master” alimenta un altro fondo detto “feeder”). La norma è stata pensata originariamente per evitare le duplicazioni di Oicvm, dovute a differenze tra le leggi e i trattamenti fiscali dei diversi Stati (l’Italia è un caso emblematico), ma assume una rilevanza maggiore oggi, in quanto le aziende hanno avviato piano di ridimensionamento per far fronte alla crisi.
In gioco c’è il futuro dell’industria dei fondi, in particolare di quella italiana, che sta attraversando da anni una profonda crisi strutturale e potrebbe, grazie alla direttiva, recuperare efficienza e far rientrare nel Paese un patrimonio che ora è a Dublino o in Lussemburgo. Il governo deve però risolvere il nodo della disparità di trattamento fiscale tra i fondi italiani e quelli esteri, come chiesto da tempo da molti, compreso il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi. La decisione, tuttavia, tarda ad arrivare per ragioni squisitamente politiche: costerebbe allo Stato circa 3,5 miliardi di euro, un conto troppo salato per le casse pubbliche, in questo momento di crisi economica che farà diminuire le entrate e aumentare la spesa per il rilancio.
Le informazioni contenute in questo articolo sono esclusivamente a fini educativi e informativi. Non hanno l’obiettivo, né possono essere considerate un invito o incentivo a comprare o vendere un titolo o uno strumento finanziario. Non possono, inoltre, essere viste come una comunicazione che ha lo scopo di persuadere o incitare il lettore a comprare o vendere i titoli citati. I commenti forniti sono l’opinione dell’autore e non devono essere considerati delle raccomandazioni personalizzate. Le informazioni contenute nell’articolo non devono essere utilizzate come la sola fonte per prendere decisioni di investimento.