Gli investitori iniziano a guardare nello specchietto retrovisore la crisi dalla quale i mercati stanno cercando faticosamente di uscire e si domandano, fra le altre cose, se la diversificazione è ancora una strategia che funziona.
La questione è emersa durante l’annuale Morningstar Ibbotson Investment Conference che si è tenuta il 4 e 5 marzo in Florida (ad Orlando). In particolare, gli investitori privati ed istituzionali hanno chiesto a Roger Ibbotson, professore alla Yale School of Management e fondatore (ora consulente) di Ibbotson Associates, se la diversificazione, sulla quale si basa la Modern portfolio theory (cercare di massimizzare i rendimenti e ridurre i rischi con una selezione accurata di quello che si mette in portafoglio) sia ancora una strategia che risponde alle esigenze degli operatori di mercato.
L’esempio che è stato portato è quello del 2008, l’anno nero dei mercati internazionali, in cui quasi tutte le classi di investimento, ad eccezione dei Treasury a lungo termine e poco altro, hanno perso. “Io sono convinto che la diversificazione, anche in quella occasione, abbia lavorato bene”, ha risposto Ibbotson. “Azioni e obbligazioni si sono comportate in maniera molto diversa: mentre le prime sono scese, le seconde sono salite. Il risultato è stato che i portafogli con una forte componente equity sono diventati molto volatili, mentre quelli con i bond sono stati meno rischiosi”.
Il problema, quindi, è che gli investitori, sia privati che istituzionali, avevano in tasca troppe azioni. “Molti hanno pensato che per proteggersi bastasse un’esposizione diversificata, per esempio sulle small e sulle big cap, oppure sugli Usa e sui mercati internazionali”, continua il professore. “E’ vero che normalmente questi mercati si comportano in maniera differente gli uni dagli altri. Ma nel 2008 hanno avuto lo stesso atteggiamento. In questo senso, si può dire che la teoria della diversificazione abbia mostrato un limite”.
Secondo Ibbotson lo scenario dei prossimi 20 anni sarà diverso da quello che ci siamo lasciato alle spalle. “Molta gente è convinta che, siccome i bond hanno fatto bene negli ultimi decenni, lo stesso succederà in futuro”, spiega. “Ma le obbligazioni hanno fatto guadagnare perché partivano da rendimenti molto alti. Il rendimento dei bond è poi sceso facendo salire però il prezzo. Vendendo il titolo, quindi, si realizzava un capital gain che permetteva di preservare il capitale o di aumentarlo. Ora con i rendimenti al 3%, non credo che ci sia un ulteriore spazio di discesa”. Il risultato è che in uno scenario di bassi yield e futuri rialzi dei tassi di interesse le obbligazioni sono destinate a soffrire a vantaggio delle azioni. “Questo, comunque, è un quadro di lungo periodo”, conclude Ibbotson. “Nel breve termine è più difficile prevedere che cosa succederà”.
Per ascoltare e leggere l’intervista a Roger Ibbotson, clicca qui.
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