Che fosse un successo era prevedibile. Ora resta da vedere come le aziende che hanno vinto i diritti di estrazione in Iraq sapranno approfittarne. Ad aggiudicarsi le concessioni sono state Schlumberger, Baker Hughes, Weatherford e Halliburton. Per ottenere i ricchi contratti di estrazione di petrolio e gas si sono impegnate ad aumentare la capacità di estrazione dell’Iraq di 12 milioni di barili al giorno rispetto ai 2,5 milioni di oggi. Per farlo avranno sei-sette anni al massimo.
“Se ci riusciranno, avranno ottenuto uno degli obiettivi più grandi nella storia dell’industria petrolifera”, spiega uno studio di Stephen Ellis, analista di Morningstar che prevede per le aziende coinvolte nella fornitura di servizi ai vincitori un guadagno di 40 miliardi di dollari almeno. “Con questi numeri è impossibile immaginare quanto guadagneranno le aziende che hanno vinto i contratti e che daranno gli appalti in sub fornitura”, continua il report. Fra questi potrebbe esserci anche qualche italiano. I nomi sono sempre i soliti: Eni e Snam Rete Gas che, con i vincitori, vantano diversi contratti di collaborazione in giro per il mondo.
Resta il fatto che la storia delle estrazioni di petrolio in Iraq non è mai stata facile. La produzione del Paese arabico ha toccato il picco dei 3 milioni di barili al giorno nel 1979. L’arrivo di Saddam Hussein al potere è coinciso con un periodo di stagnazione. “Attualmente, secondo le stime che arrivano dai consulenti del settore, si pensa che il sottosuolo iracheno contenga l’equivalente di 200 miliardi di barili”, dice Ellis. “Se la cifra fosse vera, si tratterebbe della terza riserva a livello mondiale”.
I conti con il conflitto
L’ultima guerra del Golfo non ha comunque facilitato le cose. A metà del 2009 si era già tenuta un’asta per la concessione dei diritti di esplorazione ed estrazione che però, a causa delle difficoltà del conflitto e dei termini onerosi previsti dal governo dell’Iraq, era andata praticamente deserta. Con l’ultima asta è stato deciso di basare i livelli di produzione sulla richiesta di mercato, considerando che il Paese, anche alla luce delle condizioni infrastrutturali, può esportare fino a 1,9 milioni di barili al giorno.
Sulle opportunità del Paese – di conseguenza sui guadagni che possono realizzare le aziende coinvolte e i loro soci – è scettico Nouriel Roubini, professore alla Stern Business School della New York University, presidente della società di analisi RGE, famoso negli ambienti finanziari per aver previsto con largo anticipo la crisi dei subprime che ha sconvolto i mercati mondiali. “Gli interessi commerciali esteri non sono un problema”, spiega in uno studio. “I bassi costi per gli investimenti e i termini favorevoli espressi con i nuovi contratti invitano i gruppi internazionali a investire nel Paese”.
A cosa non pensano i vincitori
Ci sono però tre problemi di cui, secondo il professore, le aziende petrolifere, attratte dalla possibilità di ricchi guadagni non hanno tenuto conto. Il primo è che non sono chiari i paragrafi relativi alle proprietà dei campi di estrazione e della distribuzione delle royalty (la percentuale che l’estrattore deve pagare al Paese in cui si trova la riserva utilizzata). “Si tratta di un problema di non poco conto, in una nazione profondamente divisa anche dal punto di vista etnico e che può ritardare l’inizio delle operazioni” spiega Roubini.
Il secondo ostacolo riguarda le infrastrutture che per arrivare all’esportazione degli 1,9 milioni di barili, devono essere ammodernate. “Un processo molto costoso che, alla fine, potrebbe incidere sul prezzo di produzione, visto che i cantieri saranno responsabilità dei vincitori delle concessioni”. C’è poi da considerare la posizione dell’Opec (l’organizzazione dei Paesi produttori) di cui l’Iraq è un membro senza diritto di voto. Il cartello, se l’estrazione irachena dovesse aumentare, potrebbe chiedere al suo socio di aderire alle quote di produzione imposte agli altri aderenti. “Con tutte queste incertezze, parlare di una crescita dell’estrazione di petrolio iracheno sembra molto ottimistico”, conclude Roubini.
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