Ci voleva il disastro del Golfo del Messico per far tornare di moda il carbone. L’incidente alla piattaforma della BP nella riserva off-shore di Macondo sta spingendo sempre più investitori a lasciare le compagnie petrolifere per ributtarsi sulla più antica forma di energia combustibile. “Fondamentalmente è una questione di costi”, spiega uno studio firmato da Catharina Milostan, analista sull’azionario di Morningstar. “La società inglese sta spendendo sei milioni di dollari al giorno per cercare di fermare l’emorragia di petrolio che sta inquinando le coste americane. Alla fine il conto potrebbe essere di 100 milioni di dollari, a cui vanno sommate le spese che il gruppo, i suoi soci e i suoi partner dovranno affrontare per pagare le multe che il governo americano eleverà e le cause legali nelle quali sicuramente saranno impegnati”.
Ma la fattura rischia di essere ancora più salata. “L’amministrazione Obama proporrà delle restrizioni alla capacità estrattiva di BP al largo delle coste americane”, continua l’analista. “Un colpo non da poco, considerando che questo tipo di produzione, nel 2009, ha contribuito per l’11% dell’estrazione totale della società inglese e il management ha nel cassetto altri progetti simili”. Il problema non riguarda solo gli azionisti del gruppo petrolifero britannico. “Tutti i maggiori player del settore, potenzialmente corrono gli stessi rischi”. A questo punto, per chi ha in portafoglio titoli energetici, potrebbe essere più conveniente spostarsi sul carbone, una fonte energetica sicuramente inquinante, ma i cui rischi e costi di estrazione sono ormai noti. Senza contare che la domanda di questo prodotto è in continua crescita. Secondo la società di ricerca McKlosey Group, la richiesta del minerale, a livello mondiale, nel 2010 dovrebbe arrivare a circa 240 milioni di tonnellate. Più o meno il doppio di quella del 2007.
“I titoli di questo settore, hanno beneficiato della ripresa dei mercati che si è verificata nei mesi scorsi prima dello scoppio della crisi greca”, spiega un report di Joseph Argett, analista di Schaeffer Investment Research, sottolineando che l’indice S&P500, ad esempio, dai minimi di marzo 2009 e fino a settimana scorsa, ha guadagnato quasi il 75%. “L’incidente della BP, sta portando nuovo interesse sui titoli del carbone. A questo bisogna aggiungere che la frenata dei mercati dei giorni scorsi sta facendo tornare le azioni del settore a livelli di prezzo interessanti”.
Fra i titoli con queste caratteristiche, l’analista segnala Alpha Natural Resources , uno dei maggiori player del comparto. “Le azioni del gruppo negli ultimi 12 mesi fino allo scoppio della crisi greca sono salite di circa il 70%”, dice Argett. “La discesa dei mercati, che si è fatta sentire soprattutto nel settore delle materie prime, ha fatto scendere il valore, ma i fondamentali della società, soprattutto nel lungo termine, sono ancora solidi”. Nel primo trimestre di quest’anno il gruppo ha registrato un utile lordo di 218 milioni di dollari contro i 110 milioni dello stesso periodo del 2009.
Il rapporto fra prezzo attuale e prospettive future gioca anche a favore di Peabody Energy, società particolarmente attiva sul fronte delle acquisizioni. Il gruppo si è appena vista rifiutare l’offerta da 3,3 miliardi di dollari che aveva lanciato sull’australiana Macarthur Coal, ma ha già comunicato ufficialmente al mercato di essere a caccia di una nuova preda.
Per gli investitori che hanno più appetito per il rischio, l’analista suggerisce Massey Energy. Il management del gruppo si trova sotto il tiro incrociato di piccoli azionisti e di alcuni fondi pensione che vorrebbero bloccarne il rinnovo a causa di numerose mancanze sul fronte della sicurezza. Le stesse che, secondo le accuse dei soci, il 5 aprile hanno portato all’incidente del sito estrattivo di Upper Big Branch, costato la vita a 29 minatori. Dal giorno della tragedia il titolo ha perso il 37%. “Un cambio dei vertici, unito a scelte più severe sul fronte della sicurezza del lavoro, darebbero sicuramente nuova linfa alle azioni”, conclude Argett.
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