Egitto, le ragioni economiche della protesta

Nei panieri emergenti, il nord Africa ha un peso irrilevante. Ma l’eco della rivolta è destinato ad arrivare lontano.

Sara Silano 03/02/2011 | 14:07
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Se prendiamo l’indice Msci sui mercati emergenti, le tensioni in nord Africa e Medio oriente rappresentano una leggera brezza per gli investitori. Infatti, l’Egitto pesa per lo 0,7% sul paniere, il Marocco rappresenta lo 0,05% e gli altri Paesi in cui ci sono stati disordini (Tunisia, Algeria, Giordania e Yemen) non sono presenti. Inoltre, le Borse mondiali non si sono fatte prendere dal panico e, dopo un iniziale nervosismo, sono tornate a concentrarsi sui dati macro-economici e sulle trimestrali. Chi è stato più penalizzato sono i sottoscrittori di fondi specializzati nella regione, con perdite intorno al 5-6%. 

Radici economiche
In realtà, le proteste in nord Africa e Medio oriente sono, nel bene e nel male, un tema di investimento, che va ben oltre gli shock di breve delle Borse. E lo sono in un senso prettamente economico: non è la religione che ha mosso la popolazione, nonostante la schiacciante prevalenza di musulmani, ma il prezzo del grano, la disoccupazione e la povertà.  Nell’ultimo decennio, i Paesi arabi hanno registrato forti tassi di crescita, ma le disparità sociali sono rimaste forti e il sistema politico non si è evoluto di pari passo con l’economia. Come spiega Baldwin Berges, managing partner di Silk Invest, boutique d’investimento specializzata nei Paesi in cui nell’antichità passava la via della seta, “La gente non ha più paura a far sentire la sua voce, perché ha visto che cos’è il ‘progresso’ e vuole vivere meglio”.

Egitto, crescita non fa rima con occupazione
L’Egitto è un caso emblematico. Con i suoi 86 milioni di abitanti è il più grande Paese arabo e la sua economia è seconda solo a quella dell’Arabia Saudita. E’ una delle poche nazioni che è stata toccata marginalmente dalla crisi creditizia, che ha piegato l’occidente, e ha tassi annui di sviluppo tra il 5 e il 6%. Tuttavia, tra i giovani, che costituiscono la fetta più grande di popolazione, il tasso di disoccupazione è di quasi il 35% (fonte Datastream, Credit Suisse). Nonostante la crescita economica, la percentuale di persone che vive sotto il livello della povertà è alto. La spesa per il cibo rappresenta quindi una voce importante nei bilanci familiari ed è per questo che le proteste sono partite dal rincaro dei prezzi alimentari, accentuato dal fatto che l’Egitto è costretto ad importare le commodities agricole per far fronte al fabbisogno interno. Ma l’insoddisfazione va oltre questo aspetto ed è parte di un processo di transizione di questi Stati, che ha imboccato una strada senza ritorno. 

Molti osservatori paragonano l’Egitto alla Turchia. Come si legge in una nota di Fadi al Said, responsabile azionario per il Medio oriente di Ing Im, proprio la Turchia è un esempio di come un regime autocratico, fortemente condizionato dalle forze armate, può evolvere verso una direzione più democratica. A livello politico, comunque, l’incertezza è ancora grande e questo non fa bene ai mercati, anche perché l’Egitto si trova in una posizione geopolitica strategica, sia per i rapporti tra Stati Uniti e Paesi arabi, sia perché dal canale di Suez passa circa il 10% dei traffici commerciali internazionali, in particolare di petrolio. Non a caso il prezzo del greggio è schizzato in alto.

Il rischio contagio
Un ultimo aspetto da tenere in considerazione è il rischio di contagio. Prima ancora dell’Egitto, a protestare erano stati i tunisini (il Paese però è praticamente assente dai portafogli dei fondi, oltre che dai benchmark emergenti), successivamente focolai ci sono stati anche in altri Stati dell’area mediterranea. Per Fadi al Said, il vero pericolo è che le manifestazioni arrivino in Arabia Saudita, il principale esportatore al mondo di petrolio, perché si creerebbe una spirale di quotazioni dell’oro nero in salita e ulteriore impennata delle commodity agricole. In una nota, però, Credit Suisse getta acqua sul fuoco, dicendo che i Paesi del Golfo hanno risorse finanziarie sufficienti per provvedere ai loro cittadini, anche se le forme di governo sono vulnerabili.

Per Berges, quello che sta succedendo è una tappa obbligata nel processo di modernizzazione della regione ed è “abbastanza positivo” nel medio termine, come insegna la storia della Thailandia (meno di un anno fa). Nel breve, i mercati potranno essere volatili, ma “la classe media e i manager delle aziende impediranno che le proteste si traducano in un danno per l’economia”. Insomma, quello che deve accadere è un riallineamento tra congiuntura e ‘modernizzazione’ del sistema di governo. Ma è proprio la variabile politica che non è prevedibile, nei tempi e nei modi. Come si legge nel blog di Mark Mobius, il guru sui mercati emergenti di Franklin Templeton, “Le ramificazioni geopolitiche dei disordini sono molte, non solo per l’Egitto, ma potenzialmente anche per il resto del mondo. Per la gran parte saranno sviluppi positivi, dal momento che i tempi per una riforma politica nella regione sono scaduti da tempo”.

 

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Info autore

Sara Silano

Sara Silano  è caporedattore di Morningstar in Italia

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