Il dollaro si gode quelli che potrebbero essere gli ultimi momenti di gloria. A partire da giugno, infatti, entrerà in vigore l’accordo firmato a fine 2011 fra Cina e Giappone che prevede di non utilizzare più il biglietto verde come valuta commerciale principale per gli scambi commerciali fra i due paesi (attualmente il 60% dei loro interscambi viene pagato in divisa Usa). Di fatto, per la moneta americana significa perdere l’influenza in una delle zone più interessanti del mondo dal punto di vista del business. Più in generale, molti analisti vedono in questo passaggio la conclusione di una preminenza americana iniziata con la fine della Seconda guerra mondiale e ratificati con l’introduzione del cosiddetto sistema Bretton Woods (dal nome della località dove l’accordo fu siglato nel luglio 1944).
Attacco al re dollaro
L’abbandono da parte della Cina del dollaro, peraltro, non è una novità. Nei suoi interscambi con la Russia (principalmente per il petrolio), Pechino utilizza lo yen e il rublo e per i commerci con l’Australia (materie prime) accetta e paga con dollari aussie. Una strategia che i cinesi hanno intenzione di adottare con tutti i partner commerciali e che ridurrà progressivamente l’importanza del dollaro non solo come valuta di riferimento nelle transazioni (attualmente il 76% delle operazioni a livello mondiale viene effettuato con il biglietto verde), ma anche la sua importanza come valuta utile da tenere in riserva dalle banche centrali (di cui, sempre a livello globale, rappresenta il 63%).
Che il dollaro non fosse più quello di una volta, è apparso chiaro fin dall’inizio della crisi fra Stati Uniti e Iran. L’America è sempre stata in grado di fare la voce grossa quando si parlava di barile perché la valuta di riferimento è sempre stata la sua. Poi l’Iran ha deciso di non utilizzarla più per vendere il suo petrolio. Washington ha cercato di convincere la Cina e l’India a mettersi dalla sua parte. Loro invece, hanno preferito acquistare l’oro nero iraniano utilizzando la propria moneta dando un colpo al sistema dollaro-centrico. “Non è stata solo una scelta commerciale”, spiega uno studio della società di consulenza Money Strategies. “Ma si è trattato anche di un chiaro messaggio lanciato al mondo per dire che il potere si sta spostando a est”. Un passaggio inevitabile considerando che, la Cina e le aree emergenti in generale, contano ormai più di metà della popolazione mondiale.
Un trono difficile da conquistare
Resta il fatto che il dollaro non ha nessuna intenzione di mollare facilmente lo scettro di valuta sovrana. A maggio è stato l’asset di investimento più ricercato dagli operatori alle prese con la crisi finanziaria dell’Europa e i segnali sempre più evidenti di un rallentamento della Cina. L’indice Intercontinental Exchange Dollar (che monitora l’andamento del biglietto verde contro le valute dei sei principali partner commerciali dell’America) il mese scorso ha guadagnato il 5,5%. Nello stesso periodo gli investimenti in reddito fisso (seguiti dall’indice elaborato da Bank of America Merrill Lynch) hanno dato un rendimento appena superiore all’1%. Il paniere Msci All country World Index (che dà un maggiore peso ai paesi emergenti rispetto al World), calcolato in dollari, ha perso quasi il 9%, mentre l’S&P Gsci Total Return dedicato alle commodity è calato del 13%. “Gli investitori e le banche centrali che sono a caccia di uno strumento di investimento efficace in questo momento non possono fare altro che acquistare dollari”, spiega un report di Julian Williams, analista di valute e materie prime di GF Global Watch. “Questo non perché vogliano farlo o perché si aspettino un rally della valuta americana. Più semplicemente perché, in questo momento, non c’è niente altro che valga la pena acquistare”.
Gli Usa (e i suoi asset) sono visti come una delle opzioni più sicure oggi sul mercato. I credit default swap (una sorta di polizza assicurativa contro il default) sugli Stati Uniti vengono trattati al di sotto dei 100 punti base. In altre parole il rischio di bancarotta è considerato vicino allo zero. Nella stessa situazione ci sono anche l’Inghilterra, la Svezia e la Svizzera. Ma il dollaro americano è ancora lo strumento più liquido.
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