Chi punta sulle Banche centrali farebbe bene a cambiare cavallo. Gli istituti di politica monetaria, infatti, non sembrano avere le idee troppo chiare sulle dinamiche della crisi finanziaria mondiale, né su come affrontare la situazione.
A dirlo, nemmeno troppo velatamente, sono gli stessi banchieri. “La politica monetaria, da sola, non può raggiungere gli obiettivi a cui potrebbero arrivare grandi e bilanciate politiche economiche”, ha spiegato il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, al summit di politica economica di Jackson Hole nell’agosto di quest’anno. “In particolare non può neutralizzare il rischio fiscale a cui va incontro il paese”. Poco dopo, ha alzato le mani anche l’ex governatore della Fed, Larry Meyer: “Non posso dirvi come ne usciremo. Semplicemente non posso”, ha dichiarato nella stessa occasione. “Posso solo dire che questa è una situazione più pericolosa di quella che abbiamo vissuto con Lehman Brothers”. Ma il più diretto di tutti, forse, è stato Richard Fisher, responsabile della Federal Reserve di Dallas: “La verità è che alla Fed nessuno sa realmente che cosa stia frenando l’economia”, ha detto durante un discorso tenuto a settembre all’Harvard Club. “Nessuno sa veramente che cosa serva per rimettere in carreggiata la congiuntura. Ci sono dei limiti a quello che la politica monetaria può fare”. Peraltro merita ricordare che la Fed è la stessa Banca centrale che, nel 2007, quando la crisi dei mutui subprime già mordeva, prevedeva “un moderato calo” dei valori immobiliari Usa.
Le cose non vanno meglio nel Vecchio continente. “Le Banche centrali hanno raggiunto i limiti di quello che possono fare”, ha detto, sempre a settembre, l’ex presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, durante la Bernstein Conference di Londra. “A questo punto è lecito chiedersi se sia il caso di basare le strategie di investimento sulle scelte fatte dagli istituti centrali per far fronte alle crisi”, dice senza mezzi termini Edwin Walczak, gestore del fondo US Value di Vontobel e uno dei pochi money manager in grado di battere con una certa regolarità l’indice S&P500.
Le banche al lavoro
Va detto che Fed e Bce ce la stanno mettendo tutta. La Fed ha annunciato che continuerà l’operazione Twist (cioè l’allungamento della vita media del debito e il reinvestimento del maturato sui debiti in scadenza ) e lascerà i tassi di interesse su livelli eccezionalmente bassi fino ad almeno la metà del 2015, termine spostato più avanti rispetto alla scadenza precedente (fine 2014). “Per sostenere una ripresa economica più vigorosa e aiutare ad assicurare che l’inflazione, nel corso del tempo, si stabilizzi a un livello più coerente con il suo duplice mandato, il Comitato ha deciso di aumentare la politica accomodante mediante ulteriori acquisti di cartolarizzazioni di mutui al ritmo di 40 miliardi di dollari al mese”, ha spiegato la banca centrale Usa. “Queste azioni, che insieme aumentano gli asset a lungo termine posseduti di circa 85 miliardi al mese fino a fine anno, dovrebbero esercitare pressione al ribasso sui tassi di interesse a lungo periodo, fornire sostegno al mercato dei mutui e, più in generale, rendere più accomodanti le condizioni dei mercati finanziari”.
Ma il primo a scendere in campo è stato il presidente della Bce, Mario Draghi, annunciando che l’Eurotower comprerà bond governativi con scadenza da uno a tre anni dei paesi che sono entrati nel programma di aiuti dei fondi salva-stati come il vecchio Efsf (European financial stability facility) o il nuovo Esm (European stability mechanism). I paesi coinvolti, da parte loro, dovranno però imbarcarsi in opere di risanamento tutt’altro che indolori. Il piano, nominato “Transazioni monetarie dirette” (in inglese Outright monetary transactions, Omt) ha l’obiettivo di contenere il differenziale di rendimento fra le obbligazioni dei paesi a rischio e i Bund riaprendo agli stati periferici il mercato dei prestiti a breve scadenza. In questo modo si dovrebbe (ma il condizionale è d’obbligo) scardinare il meccanismo per cui i tassi di breve periodo diventano talmente alti per alcune nazioni da rendere impossibile il rifinanziamento dei bond in scadenza. Una situazione che può portare a pericolosi default.
Il quadro degli interventi delle banche centrali si completa con gli ampliamenti del programma di acquisto di titoli di stato da parte della Bank of Japan e con i reverse repos (una sorta di prestito a breve termine concesso agli istituti di credito) con cui la Banca popolare cinese pompa liquidità nel sistema finanziario della prima economia emergente.
I punti deboli
Tutte queste operazioni, tuttavia, secondo alcuni operatori rischiano di spostare l’attenzione dai veri problemi. “Gli investitori in azioni si stanno concentrando più sugli effetti immediati delle politiche monetarie che sul rallentamento dell’economia”, spiega un report di Richard Golod, responsabile delle strategie di investimento globali di Invesco. “Attualmente si punta tutto sulla liquidità. Ma dovrà arrivare un momento in cui si tornerà a fare attenzione a elementi fondamentali come la crescita economica, gli utili e il mercato del lavoro”. Le critiche non si fermano qui. “Per quanto riguarda le azioni della Fed, bisogna sottolineare che, quando il numero di dollari in circolazione aumenta, il valore di tutta la moneta americana presente nel sistema economico diminuisce. Questo potrebbe portare a un livello di inflazione eccessivamente punitivo per i risparmiatori”, spiega Adam Koos, analista della società di consulenza AdviceIQ. “Esistono forti dubbi anche sull’azione della Bce. Alcuni membri dello stesso istituto centrale credono che il programma di acquisto dei bond non rientri nel mandato della banca. Inoltre non c’è nessuna garanzia che i paesi più indebitati rispettino i loro obblighi quando i titoli arriveranno a scadenza”.
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